Vittime di reati violenti: Stati UE devono risarcire anche i residenti
La direttiva 2004/80/CE impone a ogni Stato membro dell’Unione Europea di prevedere – nel caso in cui sia stato impossibile ottenere il risarcimento dal responsabile – un sistema indennitario per tutte le vittime di reati intenzionali violenti commessi nel loro territorio, non solo per gli stranieri ma anche per i propri cittadini.
Con la rilevante ordinanza n. 26303/21 depositata il 29 settembre 2021, la terza sezione civile della Cassazione ha definitivamente rigettato l’interpretazione “restrittiva” della norma data, oltre che dal Governo italiano, da diversi giudici di merito, secondo cui i suoi scopi e le finalità sarebbero stati quelli di prevedere un indennizzo limitatamente alle cosiddette “situazioni transfrontaliere”, con esclusione, dunque, di quelle meramente interne.
Una vittima di violenza sessuale non risarcita dal responsabile cita la Presidenza del Consiglio
Una donna aveva citato in causa avanti il Tribunale di Torino la Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’appunto in relazione all’inadempimento dell’obbligo di dare attuazione alla Direttiva 2004/80/CE, e segnatamente alla norma che impone agli Stati membri dell’Unione Europea, dal primo luglio 2005, di garantire “adeguato” ed “equo” ristoro alle vittime di reati violenti ed intenzionali, impossibilitate a conseguire dai propri offensori il risarcimento integrale dei danni subiti.
La ricorrente era stata vittima, nel luglio del 2005, di aggressione e violenza sessuale, ex art. 609-bis e 609-ter, comma 1, n. 2), cod. pen., perpetrata a suoi danni da un uomo che poi era stato condannato, in via definitiva, alla pena di cinque anni di reclusione, oltre che al pagamento di una provvisionale di 25mila euro in favore della parte civile costituita, alla quale era stato, pertanto, riconosciuto il diritto a conseguire il risarcimento dei danni subiti. La vittima però non aveva mai ottenuto nulla, non essendo andati a buon fine, dopo la notifica di atto di precetto al condannato per portare ad esecuzione la statuizione civile di condanna, i tentativi di pignoramento, a più riprese compiuti nei suoi confronti. Di qui la decisione di adire il Tribunale torinese affinché fosse affermata la responsabilità civile della Presidenza del Consiglio dei ministri in relazione alla tardiva e, comunque, non adeguata attuazione della Direttiva unionale.
I giudici tuttavia, con sentenza del 2016, avevano rigettato la domanda sul presupposto, da un lato, che la Direttiva dovesse trovare applicazione con riferimento ai soli reati commessi in uno Stato diverso da quello di residenza della vittima; dall’altro, che, anche a ritenere diversamente, la violazione addebitabile allo Stato italiano per la mancata attuazione della direttiva sarebbe stata priva del carattere “grave e manifesto”, necessario per riconoscerne la responsabilità.
La donna ha quindi appellato la decisione di prime cure ma la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 2018, aveva sostanzialmente confermato il pronunciamento di primo grado: i giudici avevano rigettato la richiesta di rinvio pregiudiziale del procedimento alla Corte di Giustizia dell’Unione europea affinché accertasse il carattere effettivamente “equo” e “adeguato” dell’indennizzo “medio tempore” introdotto dal legislatore italiano in forza di ius superveniens, aveva respinto la domanda volta ad accertare la responsabilità dello Stato italiano per mancata e/o inadeguata attuazione della Direttiva, e aveva accolto, sul presupposto della attuazione comunque tardiva della Direttiva stessa, la sola istanza subordinata di pagamento degli interessi sulla somma contemplata dal già citato ius superveniens a titolo di indennizzo (somma pari a 4.800 euro), liquidando, pertanto, 320,60 euro: un “insulto”.
La direttiva 2004/80/CE vale anche per le situazioni interne
Di qui l’ulteriore ricorso per Cassazione nel quale la vittima ha innanzitutto denunciato violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’interpretazione dell’art. 12 della Direttiva 2004/80/CE, nonché violazione dei principi del diritto comunitario e delle libertà fondamentali previsti dagli artt. 49, 50 e 63 del Trattato sul funzionamento della Unione Europea, vale a dire da “fonti di diritti direttamente azionabili dai residenti nei confronti dello Stato di appartenenza“, in applicazione dei principi di cui agli artt. 18, 20 e 21 del medesimo Trattato, finalizzati ad assicurare, nel rispetto dei principi di eguaglianza e o non discriminazione, la corretta applicazione dei principi del diritto comunitario.
Secondo la ricorrente, la corretta applicazione di tali norme avrebbe dovuto avere come conseguenza l’estensione degli effetti di carattere indiretto della direttiva in esame, imponendo allo Stato italiano, in via immediata e diretta, il recepimento della direttiva stessa, “con la previsione di un sistema indennitario generalizzato e necessariamente applicabile anche nei confronti dei residenti in Italia”, qualora riconosciuti vittime di reati violenti e intenzionali nel territorio dello Stato. La donna ha quindi censurato l’interpretazione data dai giudici di merito nella parte in cui avevano ritenuto la direttiva “non applicabile nei casi di situazioni puramente interne”.
Oltre a questo, la donna si doleva anche del mancato accoglimento della domanda di trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea al fine di accertare la corretta attuazione della Direttiva motivata dalla discrezionalità che, secondo la sentenza impugnata, spetterebbe al legislatore nella scelta sia dell’ammontare dell’indennizzo che della tipologia dei danni da ristorare. Tutte istanze nei confronti delle quali la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha resistito, chiedendo la declaratoria di improcedibilità del ricorso in ragione dello ius superveniens costituito dalla citata legge n. 167 del 2017, ovvero, in subordine, che lo stesso fosse dichiarato inammissibile o rigettato.
Per la Suprema Corte, il ricorso è fondato. “Non appare, infatti, conforme a diritto il principio secondo cui gli scopi e le finalità della direttiva 2004/80/CE sarebbero stati quelli di prevedere un sistema indennitario per le vittime di reati intenzionali e violenti limitatamente alle cd. “situazioni transfrontaliere” – con esclusione, dunque, di quelle meramente interne” spiegano gli Ermellini, chiarendo che l’art. 12, par. 2, della direttiva deve essere interpretato nel senso che “non solo obbliga gli Stati membri a dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio, ma che consente anche ai soggetti residenti nello Stato membro, così obbligato, di poter usufruire dell’indennizzo, essendo, quindi, anch’essi titolari del diritto conferito, nella specie, dal diritto derivato dell’Unione“.
La norma va applicata anche alle vittime residenti nello stato membro
Parimenti, la Cassazione ritiene sussistente anche l’ulteriore requisito per ravvisare la responsabilità dello Stato legislatore per mancata trasposizione del diritto unionale, ovvero la violazione “grave e manifesta” dello stesso. “Come già osservato da questa Corte – proseguono i giudici del Palazzaccio citando Cass. n. 26757 del 2020 – la portata estensiva dell’art. 12, par. 2, della Direttiva 2004/80/CE, ovvero la circostanza che esso fosse applicabile anche nei confronti delle vittime residenti nello Stato membro in cui il reato stato commesso, verrà predicata dallo stesso giudice sovranazionale in forza di una interpretazione piana e diretta (senza altre mediazioni volte dissipare incertezze interpretative, non altrimenti palesate) della sola Direttiva, di per sé ritenuta, ab origine, fonte chiaramente orientata a conferire anche alle vittime non transfrontaliere la tutela indennitaria da essa contemplata“.
Per la cronaca, secondo gli Ermellini è fondato anche il secondo motivo di doglianza. “La Corte di Lussemburgo – rileva la Cassazione – ha anche affermato che l’articolo 12, paragrafo 2, della Direttiva 2004/80 dev’essere interpretato nel senso che un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come “equo ed adeguato”, ai sensi di tale disposizione, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito”.
Un principio perfettamente sovrapponibile al caso di specie, avendo la ricorrente lamentato di essere stata vittima dello stesso reato.
L’indennizzo non deve garantire il ristoro completo del danno ma neppure essere “simbolico”
La Suprema Corte infine specifica come la CGUE, “pur premettendo che l’indennizzo non deve necessariamente corrispondere al risarcimento del danno che può essere accordato, a carico dell’autore di un reato intenzionale violento, alla vittima di tale reato, sicché esso non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalla vittima, ha però precisato che lo Stato membro eccederebbe il margine di discrezionalità accordato dall’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 se le sue disposizioni nazionali prevedessero un indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato per tali vittime, potendo il contributo essere considerato equo ed adeguato se compensa, in misura appropriata, le sofferenze alle quali esse sono state esposte“.
Dunque, ricorso accolto, sentenza cassata con rinvio del procedimento alla Corte di appello di Torino, che dovrà applicare tali principi.