No alle sanzioni per il lavoratore che rifiuta l’incarico pericoloso
Non solo i datori di lavoro, anche i lavoratori devono rendersi maggiormente parte attiva per evitare gli infortuni, arrivando anche a rifiutarsi di svolgere determinati incarichi che presentino rischi e/o in chiaro contrasto con le normative di sicurezza.
Come due macchinisti delle Ferrovie dello Stato che hanno rifiutato l’ordine che imponeva loro di condurre un treno-merci senza un secondo macchinista, o almeno un agente abilitato alla guida, che per questo erano stati sanzionati dall’azienda e che sono dovuti arrivare fino in Cassazione per vedere affermate le loro ragioni, riuscendo alla fine a vincere la loro battaglia.
E’ dunque una sentenza significativa, anche per la valenza ampia che porta in sé, quella, la n. 28353, depositata il 15 ottobre 2021 dalla sezione Lavoro Civile della Suprema Corte sul caso in questione.
Legittimo rifiutarsi di svolgere un incarico pericoloso
La causa di lavoro, ma in realtà molto di più, è scaturita dalla sanzione disciplinare della sospensione per tre giorni dal lavoro e dalla retribuzione applicata da Trenitalia a due propri dipendenti, dei macchinisti, per essersi rifiutati, il 9 gennaio 2012, dopo aver ricevuto anche un ordine scritto, di condurre un treno adibito al trasporto merci con il modulo di “equipaggio misto”, vale a dire con a bordo soltanto un “Tecnico Polifunzionale Cargo” e, pertanto, senza altro macchinista o agente abilitato alla guida.
I due lavoratori avevano impugnato il provvedimento in Tribunale che aveva dato loro ragione annullando la sanzione disciplinare, e lo stesso aveva fatto la Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 2017, respingendo il gravame di Trenitalia e confermando la decisione di prime cure.
L’Azienda tuttavia non si è data per vinta e ha proposto ricorso anche per Cassazione censurando la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto di individuare nel caso una causa di giustificazione putativa, sul rilievo che i due macchinisti avevano valutato, “non superficialmente e senza fondamento”, che la prestazione del servizio ad equipaggio misto potesse costituire un pericolo per sé e per gli altri e che fosse di conseguenza loro dovere rifiutarne lo svolgimento, trattandosi di motivi irrilevanti a giustificare l’inadempimento contrattuale in cui si era sostanziato il fatto oggetto di contestazione.
Non sarebbe stata dimostrata la pericolosità della conduzione del treno a equipaggio misto
Ancora, secondo la ricorrente i giudici territoriali avrebbero sbagliato nel ritenere che il rifiuto della prestazione trovasse giustificazione in un dato oggettivo, mentre sarebbe spettato ai lavoratori dimostrare l’effettiva (e non soltanto percepita) pericolosità di un servizio ad equipaggio misto, modulo peraltro accettato qualche mese dopo i fatti anche dall’organizzazione sindacale di appartenenza dei lavoratori, e senza che alcuna modifica o ulteriore misura di sicurezza vi fosse introdotta.
Infine, Trenitalia ha dedotto l’art. 51, lett. h), del contratto collettino nazionale di lavoro delle Ferrovie vigente all’epoca, più precisamente la disposizione collettiva secondo la quale il lavoratore “non deve comunque eseguire l’ordine” inerente all’esplicazione delle proprie mansioni “quando la sua esecuzione possa comportare la violazione di norme penalmente sanzionate”, asserendo che la Corte territoriale non aveva considerato che l’omissione colposa di tutele antinfortunistiche non è ascrivibile al lavoratore, il quale esegua l’ordine ricevuto nel rispetto dei regolamenti, ma unicamente al datore di lavoro.
Per la Suprema Corte, tuttavia, i primi due motivi sono infondati. “Il datore di lavoro – premettono gli Ermellini – è obbligato ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni e, in particolare, è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La violazione dell’obbligo di sicurezza legittima il lavoratore a non eseguire la prestazione
Ma i giudici del Palazzaccio ricordano soprattutto che per la giurisprudenza di legittimità “la violazione dell’obbligo di sicurezza legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo, ai sensi dell’art. 1460 cod. civ., l’altrui inadempimento. In caso di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 cod. civ., è legittimo, a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore”.
La protezione dei beni, anche di rilievo costituzionale, presidiati dall’art. 2087 cod. civ., prosegue la Cassazione, “postula meccanismi di tutela delle situazioni soggettive potenzialmente lese in tutte le forme che l’ordinamento riconosce, con la conseguenza che, al fine di garantire l’effettività della tutela in ambito civile, sono legittimamente esperibili non solo azioni volte all’adempimento dell’obbligo di sicurezza o alla cessazione del comportamento lesivo, ovvero a riparare il danno subito, ma anche l’esercizio del potere di autotutela contrattuale rappresentato dall’eccezione di inadempimento, con il rifiuto dell’esecuzione di una prestazione in ambiente nocivo soggetto al dominio dell’imprenditore”.
E spetta al datore di lavoro dimostrare di aver (al contrario) rispettato le norme
Quanto poi all’onere probatorio, la Suprema Corte puntualizza altresì che, in tema di responsabilità ex art. 2087 cod. civ., “grava sul datore di lavoro, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 cod. civ., l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta e di avere adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore”.
Venendo al caso specifico, la Cassazione evidenzia come il Tecnico Polifunzionale Cargo fosse abilitato “ad assicurare l’arresto e l’immobilizzo del treno in caso di emergenza”, come da Accordo sindacale del 17 novembre 2010, ma “non a condurre il convoglio, in caso di malore del macchinista, fino alla stazione più vicina o comunque fino ad un tratto della linea ferroviaria in cui, per la presenza di vie di accesso, sia possibile la prestazione di adeguata assistenza medica”.
Alla luce di questo “pacifico” presupposto, secondo i giudici del Palazzaccio la sentenza di appello aveva fatto “corretta applicazione dei principi di diritto richiamati”, in particolare laddove ha rilevato come i lavoratori, “a fronte dell’inadempimento datoriale, fossero legittimati a non eseguire la loro prestazione”.
Anche il lavoratore assume una posizione di garanzia
Ma per la Suprema Corte è infondato anche il terzo motivo del ricorso. Gli Ermellini esaminano l’art. 51 C.C.N.L. Attività Ferroviarie del 16 aprile 2003, osservando come esso prevedesse che “il lavoratore, anche quando gli sia rinnovato per iscritto un ordine attinente alla esplicazione delle proprie funzioni o mansioni, non deve comunque eseguirlo quando la sua esecuzione possa comportare la violazione di norme penalmente sanzionate”.
Per effetto di tale di disposizione collettiva, il lavoratore, si spiega nella sentenza, “assume la titolarità di una posizione di garanzia (la quale può derivare anche da una fonte di natura privatistica e pure da una mera situazione di fatto), e cioè la titolarità di una posizione rilevante ai sensi dell’art. 40, secondo comma, cod. pen., per il quale non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Anche in questo caso, dunque, secondo gli Ermellini la sentenza impugnata risulta esente da censure laddove ha escluso la configurabilità di un illecito disciplinare nel caso in esame, “sul rilievo di una responsabilità penale del macchinista, per l’evento lesivo eventualmente occorso in una situazione di fatto caratterizzata da pericolo per la sicurezza dei trasporti e l’incolumità di terzi, derivante dall’avere ottemperato ad una direttiva (conduzione del treno con il modulo Agente Solo) che lo stesso contratto collettivo gli consentiva di non osservare”.
In conclusione quindi il ricorso di Trenitalia è stato respinto e con esso sono state definitivamente cancellate le sanzioni disciplinari comminate ai due macchinisti.