Il rifiuto di sottoporsi a un’emotrasfusione per motivi religiosi non può incidere sul risarcimento dovuto

Anche quando può causare la morte di una persona, il rifiuto di sottoporsi a cure mediche, nello specifico una emotrasfusione, è espressione di un diritto costituzionalmente garantito, per cui esso non può incidere sulla misura del risarcimento spettante al danneggiato, che resta integrale. E’ un’ordinanza di straordinaria valenza quella, la n. 515, depositata il 15 gennaio 2020 dalla Corte do Cassazione, che ha affrontato il delicatissimo tela del rilievo da attribuire al rifiuto di ricevere trattamenti terapeutici in virtù del proprio credo religioso.

 

Un automobilista romano, testimone di Geova, muore in un tragico in incidente

La vicenda.  Nel lontano 1993 un automobilista romano era rimasto coinvolto in un terribile incidente stradale ed era deceduto poco dopo al l’Ospedale S. Eugenio, dove era stato trasportato in condizioni disperate e sottoposto a intervento chirurgico d’urgenza e a tutti gli altri trattamenti possibili per salvarlo eccetto la terapia emotrasfusionale: anche se incosciente, infatti, il paziente aveva con sé una dichiarazione espressa, articolata e puntuale da cui emergeva l’inequivocabile sua volontà di non essere emotrasfuso per ragioni di coscienza religiosa.

La causa per il risarcimento: domanda accolta integralmente in primo grado

I familiari delle vittima per essere risarciti hanno citato in giudizio gli eredi dell’automobilista che, invadendo la corsia opposta, aveva causato l’incidente, e l’assicurazione della sua vettura, la Duomo Uni One Assicurazioni S.p.A., la quale però aveva eccepito la prescrizione del credito risarcitorio e chiesto il rigetto della domanda, adducendo che la morte oggetto del contenzioso non fosse stata conseguenza immediata e diretta dell’incidente stradale, ma fosse da imputare al rifiuto di ricevere trasfusioni di sangue. La tesi non è stata però condivisa dal Tribunale di Roma, il quale ha dichiarato che il sinistro si era verificato per causa esclusiva dell’altro conducente, condannando la compagnia a risarcire integralmente il danno. 

 

La Corte d’Appello riconosce un concorso di colpa nel rifiuto alla trasfusione di sangue

L’assicurazione tuttavia ha proposto appello, tornando a contestare la sussistenza del nesso causale tra l’evento morte e la condotta del proprio assicurato, a suo dire interrotto dal rifiuto di emotrasfusione da parte della vittima, e chiedendo in subordine una decurtazione del risarcimento stabilito dal giudice di prime cure sulla base del fatto che il comportamento del danneggiato sarebbe stato comunque rilevante, avendo contribuito a cagionarne la morte.

E la Corte d’Appello di Roma ha accolto parzialmente il gravame e, pur ritenendo che il sinistro fosse ascrivibile in via esclusiva alla condotta di guida dell’altro automobilista, ha osservato anche che, se il paziente avesse acconsentito all’emotrasfusione, le sue chance di sopravvivenza sarebbero oscillate tra il 50% e il 65%. I giudici di secondo grado hanno quindi concluso che l’evento morte era riconducibile al concorso di due cause in egual misura: la condotta dell’altro conducente e l’esposizione volontaria del deceduto ad un rischio. Pertanto, ha stabilito che il risarcimento dovuto ai familiari della vittima andasse decurtato del 50 per cento in considerazione, appunto, dell’apporto concausale della vittima al verificarsi del proprio decesso.

Il ricorso per Cassazione dei familiari della vittima

Contro quest’ultima sentenza i suoi congiunti si sono quindi rivolti alla Cassazione, con un articolato ricorso. In particolare, hanno contestato l’erronea applicazione dei principi di causalità e dell’art. 1227 c.c., in particolare per aver la Corte territoriale valutato la scelta del deceduto di mettersi alla guida – pur consapevole che avrebbe rifiutato eventuali trasfusioni di sangue – una condotta colposa e dunque un rischio anormale, voluttuario o gratuito, che avrebbe contribuito al verificarsi dell’evento morte.

 

Contestata la individuazione di una condotta colposa

Così facendo, hanno lamentato i ricorrenti, oltre ad esprimere un giudizio di disvalore in merito alle scelte religiose della vittima, la Corte d’Appello sarebbe giunta anche all’erronea conclusione per cui sottoporsi ad emotrasfusione è comportamento esigibile e doveroso. In realtà, secondo i familiari delle vittima, non solo non vi sarebbe alcun obbligo per il danneggiato di affrontare un intervento per ridurre l’entità del danno cagionatogli, ma anzi, ritenerlo obbligato significherebbe punirlo per aver esercitato un diritto riconosciutogli dalla Costituzione.

Si evidenziava inoltre che dal momento che il rifiuto dell’emotrasfusione era intervenuto solo all’esito del sinistro, non poteva assumere forza causativa del decesso, determinato esclusivamente dal fatto illecito.

 

Criticati anche la “discriminazione religiosa” e il mancato rispetto della libertà di cura

Ancora, i ricorrenti osservavano che equiparare il rispetto delle convinzioni religiose a una negligenza o a situazioni illecite colpose o antigiuridiche, ex art. 1227 c.c., avrebbe integrato un’illegittima discriminazione nei confronti dei Testimoni di Geova, in palese violazione del principio costituzionale di laicità. Con l’assurda conclusione che ogni cittadino, vittima di un incidente o di un reato, potrebbe vedere ridotto il proprio diritto al risarcimento solo perché “colpevole” di esercitare la propria libertà personale o per le proprie scelte di vita.

Così facendo, non solo si sarebbe negato alla vittima il diritto di scegliere liberamente se e quali interventi eseguire sul proprio corpo, penalizzandola per il credo religioso professato (quando invece a una donna in stato di gravidanza, così come a un emofiliaco o un diabetico nessuno contesterebbe mai di essersi messi alla guida, pur trattandosi di circostanza idonea a mettere a repentaglio, rispettivamente, la vita del nascituro o la propria), ma si sarebbero anche alimentate condotte altamente discriminatorie, basate unicamente sul credo religioso di appartenenza. Si arriverebbe al punto che le polizze assicurative potrebbero ad esempio legittimamente contenere clausole limitative di responsabilità, basate sulla credenza religiosa dell’assicurato o del beneficiario; analogamente, un medico potrebbe andare esente da responsabilità per un intervento sbagliato se il paziente testimone di Geova rifiutasse di sottoporsi a un intervento correttivo richiedente emotrasfusioni.

 

La Cassazione chiarisce il concetto di causalità

Prima di entrare nel merito la Corte si sofferma sul concetto di causalità, ribadendo la distinzione tra causalità materiale e giuridica. La prima attiene all’imputazione causale dell’evento dannoso, cioè consente di accertare – in termini statistici-probabilistici e alle cognizioni scientifiche vigenti o a principi logico-inferenziali – se, ed eventualmente quali fatti (umani e naturali) siano stati causa di un determinato evento. La causalità giuridica consente invece di delimitare l’area del danno risarcibile.

Spetta infatti al giudice, dopo aver accertato la causalità materiale e la colpa dell’offensore, stabilire quali, tra le teoricamente infinite conseguenze provocate dall’evento danno (la lesione del diritto) siano conseguenza “immediata e diretta” di quello e quali invece no. In pratica, l’accertamento del nesso di causalità materiale serve a stabilire se vi sia responsabilità e a chi vada imputata, mentre il nesso di causalità giuridica consente di determinare la misura del risarcimento.

Ciò premesso, la Corte osserva che la distinzione tra le due ipotesi va tenuta ben presente, soprattutto rispetto ad eventi ad eziologia multifattoriale come quello in questione: casi, cioè, in cui vi è un concorso di più fattori (cause umane e naturali, cause umane colpevoli e non colpevoli) alla produzione dell’evento dannoso. Se infatti viene processualmente accertato che la causa naturale o la causa umana non colpevole esclude il nesso causale tra condotta ed evento, la domanda sarà rigettata; al contrario, se ha rivestito un’efficacia causale non esclusiva ma solo concorrente rispetto all’evento, la responsabilità sarà interamente ascritta all’autore della condotta illecita.

Il passaggio è cruciale e la Corte chiarisce che l’accertamento del nesso causale non può che risolversi nel senso della sua sussistenza o insussistenza, mentre è inconcepibile un suo “frazionamento”. L’infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è indirettamente confermata dall’art. 1227 c.c. che, circoscrivendo la riduzione di responsabilità al solo caso di concorso causale fornito dalla vittima, esclude la frazionabilità del nesso nel caso in cui la condotta del responsabile concorra con cause naturali o condotte non colpevoli.

 

Rifiutare determinate cure mediche è un diritto costituzionale, non un “fattore anomalo”

I giudici del Palazzaccio entrano quindi sul passaggio della sentenza d’appello in cui si afferma che il danneggiato si sarebbe esposto volontariamente ai rischi della circolazione stradale – pur consapevole che in caso di incidente avrebbe potuto aver bisogno di emotrasfusioni, che avrebbe rifiutato per motivi religiosi – e la si considera condotta idonea ad integrare una corresponsabilità del danneggiato ex art. 1227 c.c., riducendo proporzionalmente la responsabilità del danneggiante.

Si tratta, evidenzia la Cassazione, di una “categoria di imputazione dell’evento tendenzialmente nuova, con cui il giudice d’appello ha attribuito come “fatto proprio” un evento che, a stretto rigore, non è stato provocato da colui a cui viene riferito, con la conseguenza che è necessario accertare se sussiste o meno un nesso causale misurabile, in termini statistici, tra fatto imputabile al danneggiato e aumento del rischio.

Come detto, pur muovendo dalla constatazione che la vittima è morta a seguito del sinistro stradale, si conclude infatti (e contraddittoriamente secondo gli Ermellini) che la pronta somministrazione di sangue o emoderivati avrebbe consentito di contrastare l’evoluzione infausta del sinistro. Il nesso causale correrebbe quindi non solo tra la condotta del danneggiante e l’evento ma anche tra il rifiuto del danneggiato alla somministrazione di sangue e la propria morte.

Insomma, quello che prefigurano i  giudici di seconde cure è un vero e proprio concorso di responsabilità nel decesso, imputabile in pari misura al danneggiante e alla vittima, quest’ultima responsabile di essersi volontariamente esposta ad un rischio, evitando di circolare con l’auto.

In realtà, osserva la Corte di Cassazione, nel nostro ordinamento il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche, per motivi religiosi o di altra natura, anche quando può causare la morte del soggetto, non può comunque considerarsi un fattore anomalo e imprevedibile ma è espressione di un diritto costituzionale. Ne consegue che è impossibile invocare la teoria dell’aumento del rischio in relazione ad un comportamento preventivo che coinvolge in modo così stringente la libertà di autodeterminazione di un soggetto. Analogamente non può attribuirsi uguale rilevanza causale a più fattori, quando non è in gioco una pluralità di comportamenti umani colpevoli.

 

Il concorso non colposo del danneggiato lascia intatto l’obbligo di integrale risarcimento

La giurisprudenza di legittimità, prosegue la Corte Suprema, è costante nell’affermare che il concorso non colposo del danneggiato lascia tendenzialmente intatto l’obbligo di integrale risarcimento a carico del danneggiante. Diversamente si finirebbe infatti per addossare alla vittima, che contribuisca senza sua colpa alla causazione del danno, il peso dell’incidenza negativa della propria azione e/o omissione sull’evento finale.

Una conclusione inammissibile secondo la Cassazione, e in contrasto con l’essenza stessa della responsabilità, che presuppone un’imputazione basata sulla colpa e che sul piano risarcitorio dà rilevo al danno ingiusto non di per sè, ma solo se cagionato da una o più condotte (oppure da uno o più fatti) soggettivamente imputabili ad uno o a più soggetti.

Per quanto premesso in termini di infrazionabilità del nesso causale, anche se l’evento finale è frutto di più condotte – quella non colposa del danneggiato e quella biasimevole del danneggiante – se la colpa attiene solo a quest’ultima è corretto che il fatto e le relative conseguenze pregiudizievoli siano addebitate per intero al danneggiante. Se la condotta del danneggiato è lecita, come nello specifico, non c’è infatti ragione per alleggerire l’efficienza causale della sola condotta colpevole. Al contrario, se il danneggiato è a sua volta colpevole non sarebbe corretto far assumere tutto il peso del danno al danneggiante, che ha contribuito a cagionarlo solo in parte. Come chiarito da Cass. n. 4208 del 17/02/2017 “la concausa umana rilevante è infatti quella colposa, dovendosi derubricare quella non colposa a concausa naturale”.

La condotta non colposa è quindi equiparata alla quella naturale, perché al pari di quest’ultima non cagiona un danno (ascrivibile alla categoria dei fatti imputabili) ma mere conseguenze negative. Ne consegue che è esclusa ogni possibilità per il giudice di graduare la responsabilità dell’autore della causa imputabile, dotata di efficienza concausale (e di ridurre proporzionalmente l’entità dell’obbligazione risarcitoria) in considerazione del grado di efficienza della o delle concause naturali non imputabili. Dare rilievo alla concausa naturale e/o alla condotta umana non colpevole significherebbe infatti limitare il risarcimento del danno patito dal danneggiato, che si vedrebbe gravato della quota imputabile al fatto naturale e/o all’esercizio del proprio diritto.

 

La Cassazione ribadisce: il rifiuto di emotrasfuzioni è un diritto costituzionalmente garantito

La Suprema Corre osserva infine che, nello specifico, chiedersi se il rilievo della concausa naturale debba variare a seconda che essa preesista o meno alla condotta umana non ha neppure utilità. A monte della questione vi è infatti un ostacolo insormontabile, che assume carattere assorbente: il rifiuto della trasfusione di sangue costituisce infatti esercizio di un diritto garantito dall’ordinamento. Ragion per cui, una volta escluso che il danneggiato avesse l’onere di evitare la circolazione stradale, l’omessa sottoposizione a terapia trasfusionale era pienamente giustificata a fronte del rifiuto (legittimo) per motivi religiosi.

Il Collegio ribadisce quindi che la natura del diritto esercitato, cioè il rifiuto dell’emotrasfusione, ha acquistato una tale rilevanza nella coscienza sociale da non ammettere limitazioni al suo esercizio: intervenire sul contenimento delle conseguenze risarcitorie a carico dell’offensore significherebbe infatti incidere, seppur indirettamente, sull’intensità e sulla qualità del suo riconoscimento. Il ricorso è stato quindi accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione per la definizione della causa sulla scorta dei principi pronunciati.

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