Risarcimento danni da superlavoro: l’onere della prova
Nelle cause di lavoro, per nulla infrequenti, per il risarcimento dei danni fisici e morali causati da attività eccedenti rispetto alla ragionevole tollerabilità, il cosiddetto “super-lavoro”, il lavoratore deve provare adeguatamente (solo) di aver svolto le prestazioni secondo queste modalità “nocive” e il nesso causale tra queste e il danno, mentre spetta al datore di lavoro di dimostrare che al contrario la prestazione contestata si è svolta secondo modalità normali, congrue e comunque tollerabili per l’integrità psicofisica del sottoposto.
E’ una sentenza rilevante quella, la n. 34968/22, depositata il 28 novembre 2022, con la quale la sezione Lavoro della Cassazione ha meglio chiarito la questione dell’onere della prova in questo genere di contenziosi, accogliendo il ricorso di un lavoratore, per di più dipendente del Ministero della Giustizia.
Un dipendente cita il Ministero della Giustizia per il superlavoro che gli ha causato un infarto
Un lavoratore aveva citato in giudizio avanti il Tribunale di Roma proprio il Ministero della Giustizia per il quale aveva lavorato, prima presso l‘Amministrazione penitenziaria e poi, dal 1981, all’Ufficio automezzi di Stato della Direzione Affari Civili, dove il personale era carente, lamentando di aver essere stato sottoposto a ritmi di lavoro insostenibili, mancando qualsiasi pianificazione e distribuzione dei carichi e dovendo svolgere, in ambiente disagiato, mansioni inferiori e superiori. Una situazione che gli aveva prodotto sintomi depressivi ed esitata addirittura in un infarto, nel gennaio 2001, tanto da essere poi ritrasferito, nel 2002, all’Amministrazione penitenziaria.
Di qui la decisione di agire nei confronti del Ministero per il risarcimento del danno biologico subito per violazione dell’art. 2087 c.c. e delle pertinenti norme del D. Lgs. n. 626 del 1994, oltre ai danni alla professionalità, insistendo in subordine per il riconoscimento della ascrivibilità della patologia cardio-vascolare a causa di servizio con accertamento del diritto al pagamento del cosiddetto equo indennizzo.
I giudici territoriali gli riconoscono solo il diritto all’equo indennizzo ma non il risarcimento
Il Tribunale capitolino gli aveva però riconosciuto solo il diritto all’equo indennizzo, mentre aveva rigettato la domanda risarcitoria, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Roma. In assenza di gravame rispetto al tema dell’equo indennizzo, la Corte territoriale aveva ritenuto che il ricorrente avesse omesso di contestare la violazione di “una specifica norma, nominata o innominata”, condividendo la motivazione del giudice di prime cure che aveva constatato “la mancanza di un documento attestante il numero dei lavoratori”, necessario per “apprezzare oggettivamente le condizioni di sotto-dimensionamento”, né del resto la materiale assenza della pianta organica era stata dedotta come “violazione in sé”.
I giudici avevano quindi concluso per l’assenza di prova delle violazioni che il lavoratore assumeva essere imputabili al Ministero, ravvisando la necessità di dimostrazioni dell’elemento soggettivo della colpa, non potendosi ipotizzare una responsabilità oggettiva e dovendosi considerare come il nesso eziologico proprio del riconoscimento del cosiddetto equo indennizzo si basasse su presupposti differenti rispetto a quelli propri del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., i quali presuppongono anche la dimostrazione dell’elemento soggettivo, rispetto al quale il ricorrente non aveva fornito elementi probatori sufficienti.
Il danneggiato ricorre per Cassazione lamentando l’inversione dell’onere probatorio
Il danneggiato ha quindi proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente giudicato rispetto alle norme che regolano la responsabilità contrattuale del datore di lavoro (art. 2087 c.c.) ed ai principi che governano il riparto degli oneri probatori in tale materia (art. 2697 c.c., e artt. 115 e 116 c.p.c.), in quanto, avendo il ricorrente denunciato l’evento dannoso come ascrivibile alla condotta datoriale di mancato approntamento delle cautele organizzative necessarie a preservare l‘integrità dei lavoratori addetti all’ufficio, sarebbe spettato al Ministero dimostrare l’avvenuta adozione di tutte le misure, nominate ed innominate, utili a tal fine. E analoga violazione aveva altresì addotto con il secondo motivo di ricorso, sul presupposto che, una volta dimostrata la sussistenza dell’inadempimento e del nesso causale tra inadempimento e danno, non sarebbe stato necessario che il lavoratore avesse dimostrato anche la colpa in concreto del datore di lavoro, spettando a quest’ultimo la prova della non imputabilità dell’inadempimento. Infine, il ricorrente asseriva che, anche a voler riportare l’ipotesi ad una responsabilità aquiliana, vi sarebbe stata comunque prova concreta della colpa datoriale.
La Suprema Corte gli ha dato ragione. Gli Ermellini inquadrano innanzitutto e indubbiamente l’azione del ricorrente nell’ambito di una fattispecie di responsabilità contrattuale, “con essa essendosi inteso denunciare l’inadempimento datoriale rispetto all’assicurazione di condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti“, giudicando quindi errato il richiamo della Corte territoriale all’art. 2043 c.c.
La Cassazione ricorda quindi l’assetto degli oneri di allegazione e prova in ambito di responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 2087 c.c.: il lavoratore che agisca ai sensi di tale articolo del codice civile “ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito, come pure la nocività dell‘ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro”. Tale assetto, proseguono i giudici del Palazzaccio, va peraltro calibrato rispetto ai casi, come quello di specie, riguardante il verificarsi di un cosiddetto “superlavoro” ed in cui “la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione”: infatti, lo svolgimento di un lavoro che non sia in sé vietato dalla legge “rende fisiologico – e quindi non imputabile a responsabilità datoriale – un certo grado di usura o pregiudizio, variabile sotto il profilo fisio-psichico a seconda del tipo di attività.
Il caso particolare del “troppo lavoro”, cioè di un’attività legittima ma eccessiva
Le conseguenze negative che il lavoratore subisce per effetto di un’attività consentita, ma pregiudizievole per la salute, sono coperte in via indennitaria dalla sola assicurazione pubblica, per la cui attivazione è sufficiente il mero ricorrere di una “occasione” di lavoro. Se però, sottolinea la Suprema Corte, il lavoratore assume che un’attività in sé legittima (qui, l’impiego in un ufficio pubblico) “si sia in concreto svolta secondo modalità devianti da quelle ordinariamente proprie di essa e che proprio da ciò sia derivato a lui un danno, egli persegue un risarcimento del danno dalla sua controparte. E non può esservi dubbio che, quando si persegue un tale risarcimento quale conseguenza non di fattori “esogeni”, ma proprio per effetto in sé dell’attività lavorativa, “quello che viene addotto è l’inadempimento datoriale all’obbligo di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio indebito, nel senso che l’usura psicofisica connaturata all’esecuzione di quell’attività sia eccedente”;
E del demansionamento
La Cassazione si sofferma poi sul demansionamento, che appunto consiste in “un’attribuzione di mansioni inadeguate rispetto a quelle contrattualmente dovute”, chiarendo che “allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro, è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
La Suprema corte ammette che “un tale assetto probatorio vale solo per le obbligazioni di “fare”, mentre rispetto a quelle di “non fare” l’onere di provare l’inadempimento grava sul creditore: l’art. 2087 c.c., peraltro, stabilisce che il datore di lavoro è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, vale a dire dell’attività rispetto alla quale egli dirige e controlla le prestazioni del lavoratore, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e le tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”. Ed è poi evidente che “il potere direttivo, in cui si manifesta l’esercizio dell’impresa o la diversa attività considerata (qui, il lavoro in un pubblico ufficio) si esprime, rispetto agli obblighi di sicurezza, sia con componenti positive, nel senso che il datore può dover positivamente intervenire con forme di prevenzione o impedimento di situazioni dannose, sia attraverso componenti lato sensu negative, vale a dire che il datore di lavoro deve evitare di richiedere l’esecuzione della prestazione con modalità improprie”.
Nel superlavoro si intrecciano fattori “di fare” e di “non fare”
In realtà, però, proseguono gli Ermellini, l’obbligazione di sicurezza si materializza “in un intreccio indissolubile di fattori “di fare” e di “non fare” ed essa va colta nella sua unitarietà come dovere di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio per il lavoratore e quindi come obbligazione di fare consistente nell’obbligo di attribuire, pretendere e ricevere dal lavoratore una qualità e quantità di prestazione che sia coerente con la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, in modo che non derivi pregiudizio alla sua integrità fisica e personalità morale del lavoratore”.
E il caso del “superlavoro” manifesta proprio in modo evidente “tale intreccio”, in quanto “esso può intercettare profili violativi di obblighi di astensione (dal richiedere prestazioni eccessive), ma anche di obblighi positivi (non avere impedito lo svolgimento del lavoro con quelle modalità ed averne anzi ricevuto gli effetti produttivi utili, di rilievo specie in organizzazioni complesse in cui la scala gerarchica sia plurima ed il potere di impartire direttive ai lavoratori di un certo preposto conviva con quello di chi si collochi ancora al disopra e sia tenuto ad impedire che siano pretese eventuali lavorazioni incongrue)”.
Ne consegue pertanto che il lavoratore a cui sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, “lamenta un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza, sicché egli è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad esempio, le modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole), spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile”.
Gli errori dei giudici di merito che hanno richiesto allegazioni non spettanti al ricorrente
Nel caso di specie, dunque, la Corte territoriale, asserendo che mancherebbe la prova delle violazioni che il ricorrente assume essere imputabili al Ministero, “lo fa – continua la Cassazione – con affermazioni non del tutto univoche, ma che appaiono riconducibili, per un verso, alla mancata indicazione di una specifica norma, nominata o innominata, a fondamento dell’inadempimento”.
Si tratta però di un’affermazione errata, in quanto, “oltre a non potersi imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica”, ancor meno ciò può essere richiesto “quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche”.
E che invece erano inerenti alla prova liberatoria dovuta dal datore di lavoro
Per altro verso, come si evince dal richiamo alla mancanza di documenti sul numero di lavoratori e sull’esistenza o meno di una pianta organica, la Corte d’Appello aveva chiaramente ragionato e definito la causa imputando tali carenze al lavoratore, “mentre tali profili attengono in realtà alla prova liberatoria cui è tenuto il datore in ordine all’organizzazione adeguata del lavoro” incalzano i giudici del Palazzazzio”. Non diversamente, anche rispetto all’attribuzione di mansioni inferiori, e rispetto alla deduzione per cui il lavoratore doveva fare tutto, sia al di sopra che al di sotto del suo livello di inquadramento, “era il datore di lavoro a dover dimostrare di avere osservato le regole proprie che governano l’attribuzione dei compiti al dipendente”, e non era dunque il ricorrente a doverne fornire la prova e a sottostare agli effetti dell’eventuale mancato assolvimento del corrispondente onere.
A ciò si aggiunge il fatto che il nesso eziologico tra l’infarto e l’attività lavorativa in concreto svolta “è pacifico ed attestato dal riconoscimento ormai incontestato dell’equo indennizzo per causa di servizio: è infatti evidente che, allorquando il danno derivi dalla denuncia di un “superlavoro”, il nesso causale riconosciuto per la causa di servizio non può che essere identico a quello per l’azione di danno, quando le due pretese riguardino la medesima attività che risulti così svolta, spettando al datore liberarsi dalle istanze risarcitorie attraverso la dimostrazione dell’inesistenza di un suo inadempimento”.
Il principio di diritto
La Cassazione ha quindi ritenuto di disattendere le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dal Ministero, “non ricorrendo né l’incoerenza dei motivi rispetto alla giurisprudenza di questa Suprema Corte né il risalire delle censure ad una pretesa di riesame del merito, fondandosi esse invece principalmente sull’inosservanza delle norme sul riparto degli oneri probatori”.
Di qui la cassazione della sentenza impugnata ed il giudice del rinvio, la corte d’Appello capitolina in diversa composizione, dovrà quindi svolgere ex novo il giudizio sulla responsabilità datoriale, tenendo conto dell’assetto degli oneri probatori quale sopra delineato dalla Suprema Corte, che con l’occasione ha anche pronunciato un principio di diritto: “in tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive ed a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore“.