Infortuni e malattie sul lavoro: il principio di equivalenza causale
Il cosiddetto principio di “equivalenza causale” prevede che tutte le cause (remote e prossime) di un evento dannoso debbano essere considerate concause dell’evento, sia che abbiano agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota. Tale principio, di cui all’art. 41 c.p., trova applicazione anche nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, laddove nella determinazione delle stesse entrino in gioco anche altri fattori estranei a quelli strettamente connessi con il lavoro sul cui “peso” verte la questione.
La giurisprudenza di legittimità al riguardo ha giù più volte stabilito che, in applicazione di detto principio, la concausa è causa per intero dell’evento anche se sono presenti altre concause. In altre parole, a fronte di una malattia professionale derivata da una causa sia lavorativa che extralavorativa, aventi entrambe natura efficiente e causale, “deve necessariamente trovare applicazione il principio espresso dall’art. 41 c.p. in tema di equivalenza causale, in base al quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione, l’omissione e l’evento”.
Ne consegue che un giudice non può attribuire una patologia di cui è in discussione l’origine professionale unicamente a una causa “esterna” senza aver prima quanto meno ben valutato tutto il quadro “causale” nel suo complesso, così come non può sposare pedissequamente, senza alcuna motivazione, le conclusioni di una perizia medico legale, peraltro affatto “univoca”, laddove essa giunga a conclusioni diametralmente opposta ad altra perizia, sempre d’ufficio, redatta in corso di causa. A ribadire questi fondamentali concetti l’interessante sentenza n. 675/23, depositata il 12 gennaio 2023, della Corte di Cassazione, sezione Lavoro, che ha accolto il ricorso dei familiari di un operaio deceduto per un tumore.
Respinta la richiesta danni dei familiari di un operaio deceduto per malattia professionale
I congiunti del lavoratore avevano citato in causa l’azienda per la quale il loro caro aveva lavorato a lungo, le Acciaierie Valbruna, per ottenerne la condanna al risarcimento del danno sia iure proprio che iure hereditatis per la morte del loro familiare a fronte della responsabilità dell’ex datore di lavoro nella determinazione della malattia professionale “silicosi” riconosciutagli dall’Inail, nonché in relazione alle patologie tumorali insorte dopo la cessazione del lavoro.
La domanda risarcitoria era stata accolta in primo grado ma la Corte d’Appello di Venezia, in riforma della sentenza di prime cure, con decisione del 2018, l’aveva respinta. I giudici avevano pronunciato il loro verdetto di diniego sulla base degli esiti della consulenza tecnica d’ufficio disposta in secondo grado che aveva escluso l’esistenza di un nesso causale tra la patologia tumorale e l’attività prestata dall’operaio alle dipendenze della società chiamata in causa.
I congiunti ricorrono per Cassazione appellandosi al principio di equivalenza causale
I familiari del lavoratore a quanto punto hanno proposto ricorso per cassazione censurando, tra l’altro, l’omesso esame della “causa petendi” dell’azione proposta, incentrata sulla nocività delle mansioni espletate e dell’ambiente lavorativo (rispetto ai quali i ricorrenti hanno lamentato anche la mancata ammissione della prova orale), e, altro punto rilevante, violazione del “principio di equivalenza causale”.
La Corte d’Appello avrebbe prestato adesione alla consulenza tecnica d’ufficio espletata senza tenere conto delle loro osservazioni nel corso e successivamente all’espletamento della Ctu, e avrebbe considerato prevalenti ai fini del decesso circostanze, quali il fumo da sigaretta, prive di concreto riscontro, mentre non avrebbe condotto adeguati approfondimenti sulle cause collegate all’attività lavorativa e al suo nesso di causalità con la malattia, ottenendo di esaminare una serie di circostanze fattuali insiste sull’aspetto della equivalenza causale.
La Suprema Corte accoglie le doglianze, la Ctu in realtà non escludeva le cause lavorative
Per la Suprema Corte il ricorso è fondato. La sentenza impugnata, ripercorrono la vicenda processuale gli Ermellini, aveva richiamato, trascrivendoli in motivazione, i pertinenti brani della relazione peritale di secondo grado nella quale, fra l’altro, il Ctu, per citare la sua perizia, dava atto di un quadro diagnostico di pneumoconiosi “non ulteriormente definibile/possibile silicosi, ma anche di pneumoconiosi da polveri miste o da carburo di silicio cui con molta probabilità (omissis) è stato esposto dal 1960 al 1978”, e con riferimento al carcinoma alla laringe ne ravvisava la causa “nell’elevata esposizione al fumo di sigaretta e in una esposizione a polveri miste, “probabilmente inclusa anche la silice cristallina“, concludendo che “a fronte di più fattori di rischio, il tabagismo aveva avuto un “ruolo prevalente” e che vi era “limitata evidenza” del ruolo concausale della esposizione a polveri miste. Come detto, è da questi elementi che il giudice di secondo grado ha tratto la conferma del mancato raggiungimento della prova del nesso causale tra il tumore polmonare e l’attività lavorativa svolta presso le acciaierie.
Questa conclusione, così come le argomentazioni del consulente tecnico di ufficio che avrebbero dovuto supportarla, “risulta inidonea a giustificare la decisione di rigetto” convengono con i ricorrenti i giudici del Palazzaccio.
Andavano valutati anche i fattori concausali collegati all’esposizione di polveri in fabbrica
“La Corte di merito nel valorizzare, sulla base della relazione peritale, al fine dell’insorgenza della patologia tumorale, il ruolo “prevalente” del tabagismo avrebbe dovuto, infatti, considerare per il principio della equivalenza causale, di cui all’art. 40, comma 2 cod. pen., la possibile esistenza di fattori concausali collegati al rischio lavorativo, fattori che avrebbero dovuto essere verificati alla luce di un ragionamento probabilistico che nello specifico non è dato riscontrare” spiega la Suprema Corte.
La quale aggiunge anche che l’esclusione del ruolo concausale dell’esposizione lavorativa non può nemmeno ricavarsi dall’accertamento del consulente tecnico di ufficio, “stante il carattere obiettivamente “perplesso” del complessivo ragionamento dell’ausiliare ed in particolare dell’affermazione conclusiva relativa alla “limitata evidenza” del ruolo concausale dell’esposizione a polveri miste: l’evidenza o c’è o non c’è” prosegue , critica la Cassazione.
Che, infine, censura anche il fatto che la Corte territoriale, in presenza di “plurime relazioni peritali svolte con esiti difformi nei giudizi di merito di primo e secondo grado – in primo grado la relazione integrativa dell’ausiliare era pervenuta a conclusioni diametralmente opposte a quelle formulate in appello -, intendendo uniformarsi alla seconda consulenza, non poteva limitarsi ad una adesione acritica alla stessa ma avrebbe dovuto giustificare la propria preferenza indicando le ragioni per le quali riteneva preferibile aderire alla seconda consulenza e non anche alle diverse conclusioni attinte con la prima relazione peritale dal consulente di ufficio di primo grado”. La sentenza impugnata è stata pertanto cassata, con rinvio alla Corte d’appello lagunare, in diversa composizione, per una rivalutazione totale della causa.