Responsabilità banca per pagamento assegni circolari falsificati
A meno che non dimostri di aver ottemperato e con scrupolo a tutti gli obblighi di verifica e controllo, la banca deve rispondere del pagamento di un assegno circolare non trasferibile che sia stato contraffatto e incassato da un soggetto non legittimato, risarcendo della pari cifra il danneggiato da questa purtroppo frequente frode. Indicativa al riguardo l’ordinanza n. 38163/22 depositata il 30 dicembre 2022 dalla Cassazione.
Poste condannate a rifondere l’ammontare di un assegno circolare pagato a un truffatore
La vicenda. Il tribunale di Bari, con ordinanza del 22 marzo 2018, aveva accolto parzialmente (dichiarando la concorrente responsabilità delle due parti) la domanda di risarcimento danni proposta da un correntista nei confronti di Poste Italiane S.p.a. per il pagamento di un assegno circolare non trasferibile dell’importo di 17mila euro emesso dal Banco di Napoli S.p.a. su richiesta del primo, assegno contraffatto e posto all’incasso da un soggetto non legittimato, condannando l’istituto al pagamento della somma di 5mila euro. La Corte d’appello cittadina, poi, accogliendo il gravame proposto dal danneggiato, aveva dichiarato la responsabilità esclusiva delle Poste nella causazione della frode condannandola al pagamento di ulteriori 12mila euro e a rifondere, quindi, l’intero ammontare dell’assegno.
L’azienda tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto contrario ai doveri di diligenza professionale il comportamento tenuto dall’operatore di sportello, senza tenere conto della natura dell’assegno, che non recava la firma del correntista in quanto emesso dalla Banca su richiesta dello stesso, e dell’intervenuto adempimento degli obblighi gravanti sulla negoziatrice, consistenti nell’identificazione del presentatore del titolo, già peraltro titolare di un conto corrente, e nella verifica della genuinità dell’assegno, comunque negoziato salvo buon fine.
La diligenza “dell’accorto banchiere”
Ma per la Suprema Corte il motivo di doglianza è inammissibile. Nell’accertamento della responsabilità della ricorrente la sentenza impugnata, secondo gli Ermellini, si è infatti attenuta puntualmente al principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di pagamento di un assegno falsificato, secondo il quale, ribadisce la Cassazione, “la misura della diligenza richiesta alla banca nel rilevamento della falsificazione dev’essere valutata alla stregua del paradigma di cui al secondo comma dell’art. 1176 cod. civ., il quale impone di avere riguardo alla natura professionale dell’attività esercitata, e quindi di rapportare la condotta della banca a quella dell’accorto banchiere”.
Una condotta che, precisano i giudici del Palazzaccio, va inquadrata “in quel dato contesto storico e rispetto a quella determinata falsificazione, saggiando, in concreto, il grado di esigibilità della diligenza stessa, e verificando in particolare se la falsificazione sia o meno riscontrabile attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile, dell’assegno da parte dell’impiegato addetto, in possesso di comuni cognizioni teorico/tecniche, o anche mediante l’uso di mezzi e strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo e di agevole utilizzo, o piuttosto se la falsificazione stessa sia invece riscontrabile soltanto tramite attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento e/o utilizzo o tramite particolari cognizioni teoriche e/o tecniche”.
Gli Ermellini evidenziano quindi come, ai fini di tale accertamento, la Corte territoriale abbia posto “correttamente” in risalto la “natura contrattuale della responsabilità, derivante da contatto sociale qualificato, e la conseguente imposizione a carico della banca negoziatrice dell’onere di fornire la prova liberatoria, dando atto dell’inadempimento di tale onere da parte dell’appellata”.
Poste italiane, infatti, pur avendo affermato di aver regolarmente provveduto alle incombenze previste per legge, “non aveva mai fornito la relativa prova, avendo omesso finanche di produrre l’originale del titolo, ed avendo in tal modo impedito qualsiasi riscontro in ordine all’impossibilità di rilevarne ictu oculi la falsificazione, mediante l’uso della diligenza professionale esigibile dall’operatore di sportello”.
Un apprezzamento, qualificabile come un giudizio di fatto riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., che, prosegue la Suprema Corte, “non risulta validamente censurato dalla ricorrente, la quale si è limitata a dedurre il vizio di violazione di legge, in riferimento alle norme che disciplinano la ripartizione dell’onere probatorio, insistendo sull’adempimento degli obblighi gravanti a suo carico, senza neppure indicare gli elementi di prova addotti a sostegno del proprio assunto”.
Respinto anche il motivo di ricorso in cui si sosteneva il concorso di colpa del danneggiato
Ma la Cassazione ha rigettato anche il secondo motivo di ricorso, nel quale Poste Italiane censuravamo la sentenza della Corte territoriale per aver escluso il concorso di colpa del correntista, senza tenere conto del supposto comportamento gravemente negligente dello stesso, che, secondo la tesi difensiva, avrebbe agevolato la contraffazione e la negoziazione dell’assegno mediante la trasmissione al beneficiario di copia integrale del titolo per posta elettronica.
Secondo la Suprema Corte, non è infatti pertinente il richiamo della ricorrente al principio, recentemente enunciato dalle Sezioni Unite della stessa Cassazione, in riferimento all’ipotesi di spedizione di un assegno per posta ordinaria, “secondo cui, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, la condotta del mittente deve considerarsi idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l’esposizione volontaria ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl’interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore”.
La sentenza impugnata, pur essendosi attenuta a un diverso orientamento precedentemente manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, aveva infatti anche accertato, concludono gli Ermellini, che il richiedente non si era privato del possesso del titolo, ma ne aveva trasmesso una copia informatica al beneficiario, al fine di consentirgli di verificare l’avvenuta emissione del titolo e l’esistenza della relativa provvista, “escludendo l’idoneità di tale comportamento ad agevolare la falsificazione dell’assegno da parte del presentatore, e ritenendo irrilevante, a tal fine, la circostanza che il richiedente non si fosse limitato a trasmettere al beneficiario i dati identificativi del titolo”. Il ricorso è stato pertanto rigettato.