Dà degli “imbroglioni” agli amministratori comunali su Facebook: condannato per diffamazione
In questo periodo di clausura forzata da coronavirus si è ulteriormente moltiplicato l’utilizzo dei social network per dialogare con il mondo esterno: “benedetta tecnologia” verrebbe da dire.
Come tutte le cose, però, anche i vari Facebook e Twitter vanno usati con equilibrio e accortezza tenendo ben presente che quanto si scrive e si posta non si perde come una chiacchiera al bar, ma viene di fatto condiviso con una platea potenzialmente globale di persone e, soprattutto, viene registrato. Anche se dopo qualche ora lo si cancella, non si scampa dagli screenshot.
Per questo è fondamentale evitare toni offensivi, denigratori o peggio ancora discriminatori, perché si rischia una denuncia per diffamazione, non diversamente da quello che può capitare a un giornalista, e di dover pagare i danni morali.
Lo sfogo di un cittadino su Facebook e condanna per diffamazione aggravata
Lo sa bene un “leone da tastiera” siciliano il cui caso è arrivato fino in Cassazione, che si è espressa con una recente sentenza, la n. 628/20 depositata il 10 gennaio 2020.
Il cittadino aveva pubblicato sul suo profilo pubblico su Facebook due messaggi particolarmente pesanti nei confronti degli allora amministratori comunali del Comune di Valdina, definendoli “imbroglioni” e accusandoli di aver intascato i soldi delle tasse, con particolare riferimento all’allora vice sindaco.
Il politico non l’ha presa affatto bene e ha citato in causa il suo “accusatore”, ottenendone la condanna per il reato di diffamazione aggravata, sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello di Messina dove quest’ultimo aveva appellato la decisione.
L’imputato si appella al “diritto di critica politica”
L’imputato, però, ha proposto ricorso anche per Cassazione adducendo tre motivi di doglianza. Con il primo lamentava l’erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione, denunciando anzitutto l’omessa pronuncia da parte della Corte sulla configurabilità del dolo del reato, che pure aveva costituito oggetto di contestazione con il gravame di merito.
Inoltre lamentava l’illogicità della motivazione della sentenza in merito alla ritenuta insussistenza dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica, osservando come lo stesso giudice dell’appello avesse riconosciuto che tale critica può assumere anche toni aspri quando il destinatario ricopra cariche pubbliche, escludendo di conseguenza l’illiceità dell’epiteto “imbroglioni” rivolto dall’imputato alla persona offesa ed ai suoi colleghi di giunta.
Sarebbe stato quindi contraddittorio l’aver invece ritenuto sussistente il reato per le insinuazioni di aver “intascato” il danaro oggetto di “prelievo forzoso” a carico dei cittadini, ritenendo che esse contenessero la velata accusa di malversazione a proprio vantaggio delle somme oggetto di prelievo fiscale. A detta del ricorrente, questa conclusione della Corte d’Appello sarebbe viziata dall’errata, se non fantasiosa, interpretazione dei sui scritti, nei quali si sarebbe limitato a criticare gli amministratori del Comune di Valdina, e suoi avversari politici, di non aver rinunziato all’indennità di carica e di non aver abbassato le imposte comunali, come invece promesso nel corso della competizione elettorale.
Ancora, con il secondo motivo l’imputato denunciava analoghi vizi circa il mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., mentre con il terzo lamentava la violazione di legge in merito all’ammissione della costituzione di parte civile dell’allora vicesindaco, da ritenersi tardiva in quanto intervenuta successivamente all’espletamento degli adempimenti di cui all’art. 484 c.p.p.
Condanna confermata: non critiche ma accuse di malversazione
Per la Cassazione, tuttavia, i primi due motivi, quelli sostanziali, sono del tutto infondati.
“La Corte territoriale – spiegano gli Ermellini – ha ritenuto che il contenuto dei messaggi “postati” dall’imputato rivelasse la volontà di muovere non tanto un’aspra critica all’operato degli amministratori comunali, bensì quella di accusarli di essersi appropriati di danaro pubblico, insinuando che gli stessi si fossero “intascati” risorse provenienti dal prelievo fiscale. In tal senso la sentenza ha escluso la stessa configurabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p., sostanzialmente negando la sussistenza della veridicità del fatto posto alla base dell’invocato esercizio del diritto di critica”.
Conclusioni che per la Suprema Corte non appaiono censurabili, trovando effettivo riscontro nel tenore testuale dei messaggi incriminati, “che non contengono alcun esplicito od implicito riferimento al significato che invece gli attribuisce il ricorrente, le cui obiezioni sul punto risultano dunque meramente congetturali”.
Più che accuse, calunnie
I giudici del Palazzaccio rigettano anche le doglianze circa il dolo del reato (“profilo in riferimento al quale non erano stati esplicitati in maniera specifica con i motivi d’appello le ragioni in fatto e in diritto a sostegno dell’affermata sua insussistenza” e quelle relative alla causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. Secondo la Cassazione la Corte d’appello ha “implicitamente escluso la particolare tenuità del fatto laddove ha motivatamente valutato la sua intrinseca gravità, sottolineando la natura al limite del calunnioso delle accuse lanciate dall’imputato, nonché apprezzato negativamente la loro reiterazione”.
E la motivazione, rammenta la Suprema Corte, può risultare anche implicitamente dall’argomentazione con la quale il giudice d’appello “abbia considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell’imputato” Dunque, da questo punto di vista condanna per diffamazione aggravata confermata in pieno.
Alla fine però, niente risarcimento: il vicesindaco si è costituito in ritardo
All’imputato è invece andata di lusso sotto il profilo risarcitorio perché, per la cronaca, è stato invece accolto il terzo motivo di doglianza.
La Cassazione ricorda – e farebbero bene a farne tesoro le parti lese, per tutti i reati – che, ai sensi dell’art. 79 c.p.p., comma 1, c.p.p., la costituzione di parte civile può avvenire “per l’udienza preliminare e, successivamente, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’art. 484, c.p.p., norma, quest’ultima, secondo cui, prima di dare inizio al dibattimento, il presidente controlla la regolare costituzione delle parti e che deve essere letta unitamente a quanto previsto dagli artt. 491 e 492 del codice di rito. L’art. 491 c.p.p., comma 1, in particolare, stabilisce, tra l’altro, che le questioni concernenti la costituzione di parte civile sono precluse se non sono proposte subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti. Secondo l’art. 492 c.p.p., infine, il presidente, compiute le attività indicate negli artt. 484 c.p.p. e ss., dichiara aperto il dibattimento”.
Pertanto, la costituzione di parte civile deve avvenire, a pena di decadenza, fino a che non siano compiuti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti, essendo in tale fase che bisogna stabilire quali siano le parti “legittimate” a stare in giudizio, e non può avvenire in coincidenza con l’apertura del dibattimento (ovvero prima dell’apertura della sua apertura, ma dopo che si siano esauriti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti.)
Nel caso di specie, invece, alla prima udienza che si era tenuta il 9 febbraio 2016 la parte offesa non era comparsa e il giudice aveva provveduto alla verifica della regolare costituzione delle parti, per poi rinviare al 12 aprile successivo il processo senza fare espressamente salvi i diritti di costituzione e dimostrando così di ritenere conclusi gli adempimenti di cui all’art. 484 c.p.p. Come l’imputato aveva eccepito già nel primo grado di giudizio, chiedendo invano l’esclusione della parte civile, la costituzione avvenuta all’udienza di rinvio era tardiva, a prescindere che solo successivamente si sia proceduto all’apertura del dibattimento.
Ferma restando dunque la condanna, la sentenza è stata annullata senza rinvio quanto alla conferma delle statuizioni civili, cioè la definizione del risarcimento, che a loro volta sono state annullate in ragione della rilevata inammissibilità per tardività della costituzione della parte civile.