Le infezioni da Covid-19 in ambito nosocomiale
Nell’attuale momento storico, la diffusione del Coronavirus a livello globale ha reso ancora più attuale – anche sotto il profilo giuridico – il tema delle infezioni contratte all’interno delle strutture sanitarie e, più precisamente, delle infezioni correlate all’assistenza (ICA).
Le infezioni ospedaliere
Per ICA – in passato denominate infezioni ospedaliere o nosocomiali – si intendono quel gruppo di patologie infettive correlate all’assistenza, che costituiscono la complicanza più frequente e grave dell’assistenza sanitaria e possono verificarsi in ogni ambito assistenziale, compresi gli ospedali per acuti, i day hospital/day surgery, le strutture di lungodegenza, gli ambulatori, l’assistenza domiciliare, le strutture residenziali territoriali.
Le ICA insorgono nel corso del ricovero ospedaliero, non essendosi manifestate clinicamente al momento dell’ingresso del paziente e, per definizione, si rendono evidenti generalmente dopo almeno 48 ore dal ricovero stesso o durante le ore successive alla dimissione. Tali infezioni sono causalmente riferibili, per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di trasmissione, al periodo stesso del ricovero e rappresentano un problema serio, considerata la loro elevata frequenza e le conseguenze che determinano.
Esse, infatti, hanno un impatto clinico ed economico estremamente rilevante, provocando un prolungamento della durata della degenza, disabilità a lungo termine, aumento alla resistenza dei microrganismi agli antibiotici, senza contare il carico economico aggiuntivo per i sistemi sanitari e per i pazienti ed i loro familiari.
Secondo il Ministero della Salute, in Europa le ICA provocano ogni anno 37mila decessi attribuibili direttamente all’infezione e 110mila decessi per i quali l’infezione rappresenta una concausa. Dati dell’Osservatorio Nazionale della Salute riportano che in 13 anni, dal 2003 al 2016, il tasso di mortalità per infezioni contratte in ambito ospedaliero è più che raddoppiato, passando dai 18.668 decessi causati dalle infezioni ospedaliere del 2003 ai 49.301 registrati nel 2016.
Le infezioni ospedaliere, come detto, sono considerate in medicina come una complicanza, definita come evento dannoso, astrattamente prevedibile ma difficilmente evitabile. Non tutte le ICA sono prevenibili, ma in realtà si stima che attualmente possa esserlo una quota superiore al 50 per cento. Pur a fronte di sforzi economico-organizzativi e nonostante i numerosi studi epidemiologici e lo sviluppo di protocolli per la sorveglianza, l’effettivo controllo e la prevenzione, le ICA dunque costituiscono a tutt’oggi un problema costante con frequenti implicazioni medico legali con riferimento ai comportamenti antigiuridici perseguibili in ambito sanitario.
La prevenzione, le buone pratiche e le linee guida
La prevenzione ed il controllo delle ICA nelle strutture assistenziali giocano un ruolo fondamentale ed irrinunciabile per ridurne l’impatto e, più in generale, per ridurre la diffusione dei microrganismi antibiotico-resitenti. Assumono particolare rilevanza, ai fini del contrasto alle ICA, la definizione e l’applicazione di buone pratiche di assistenza e di altre misure (quali ad esempio il corretto lavaggio delle mani, la riduzione delle procedure diagnostiche e terapeutiche non necessarie, il corretto uso di antibiotici e dei disinfettanti, la sterilizzazione dei presìdi, l’isolamento dagli altri pazienti, ecc), secondo un programma integrato adattato al particolare ambito assistenziale attraverso anche sistemi di sorveglianza attiva e di monitoraggio delle infezioni.
Proprio la valorizzazione giuridica delle linee guida e delle buone pratiche assistenziali attuata con la Legge Gelli-Bianco ha rappresentato una tra le principali novità dettate dalla normativa in ambito di responsabilità sanitaria, con la finalità ultima di ridurre il contenzioso ed il fenomeno della medicina difensiva mediante uno sgravio della responsabilità del professionista. Con la Legge n. 24/2017 l’osservanza delle linee guida rappresenta, infatti, una causa di non punibilità in sede penale (art. 6) e obbliga in giudice a graduare in minus il quantum dell’obbligazione risarcitoria civile, che risulterà inferiore all’ammontare complessivo subito dal paziente (art. 7, comma 3).
Le responsabilità dei sanitari e delle strutture
Se è vero che le disposizioni della Legge Gelli-Bianco che prevedono il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida ed dalle buone pratiche clinico-assistenziali si rivolgono, secondo la formulazione letterale delle disposizioni normative, agli esercenti le professioni sanitarie e non alle strutture ospedaliere, non si può peraltro dubitare che la struttura organizzativa di queste ultime non potrà non tenere conto anche delle indicazioni di comportamento rivolte direttamente agli operatori.
L’art. 7 c.1 della citata legge prevede la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria: “la struttura sanitaria o sociosanitaria che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose e colpose”.
Nel nuovo contesto normativo delineato dalla Legge Gelli-Bianco, la diligenza qualificata richiesta al debitore della prestazione intellettuale viene ad essere valutata prendendo come parametro di riferimento lo “standard of care” formalmente positivizzato dalla comunità scientifica, derivato dalle più valide evidenze scientifiche selezionate e trasferite nell’attività sanitaria. Ciò che avvalora il processo di cura, l’appropriatezza o meno di una decisione clinica è dunque l’evidenza scientifica, attraverso quel metodo formale e rigoroso della cosiddetta medicina delle prove di efficacia.
Il “caso” Covid: dallo scenario emergenziale iniziale a quello attuale
Venendo alla questione Covid, è stato da più parti evidenziato come la diffusione pandemica da SARS-CoV-2 abbia messo in evidenza i limiti dell’approccio della medicina delle prove di efficacia, che diviene inapplicabile quando il dato scientifico sia del tutto incerto, facendo emergere il problema della gestione clinica condivisa dalla comunità scientifica per la mancanza proprio di uno “standard of care” terapeutico antivirale. Conseguentemente, il presupposto dello standard of care quale riferimento di valutazione per la esigibilità della condotta dovrà essere necessariamente ancorato alla peculiarità del singolo caso concreto ed indubbiamente del momento storico.
E’ evidente che, nel corso di una emergenza sanitaria, il giudizio sulla condotta professionale non possa essere ancorato al medesimo standard richiesto in circostanze ordinarie e che, conseguentemente, ci si debba chiedere quale sarebbe stata la condotta del professionista medio in una analoga fattispecie: in circostanze non ordinarie (il contesto emergenziale di pandemia virale ingenerato da un patogeno nuovo e non conosciuto quale SARS-CoV-2) il dovere di protezione che ricade sul sanitario deve essere adattato in quanto situazione particolare.
Qui però va operato un distinguo. E’ innegabile, infatti, il diverso significato che assumono le linee guida in uno scenario pandemico ed emergenziale, quale quello iniziale della diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, rispetto a quello attuale. Se è vero che la fase iniziale della pandemia è stata caratterizzata da una totale mancanza di linee guida e buone pratiche clinico-sanitarie, è altresì vero che nel corso del tempo queste sono via via comparse in misura sempre maggiore, pur non rappresentando quel carattere consolidato che normalmente posseggono le best practices nel campo della medicina.
Quando la struttura è responsabile
Ciò posto, con riferimento alla valutazione della responsabilità delle strutture sanitarie, andrà in ogni caso considerata l’elaborazione e l’adozione o meno, da parte delle stesse, di procedure e protocolli operativi, di programmi di sorveglianza continua relativamente alle infezioni nosocomiali in generale ed al COVID in particolare, di un sistema di triage trasparente e di una adeguata registrazione di ogni atto medico praticato. E’ indubitabile, infatti, che la mancata o scorretta adozione, a livello organizzativo, di accorgimenti atti ad evitare la diffusione del virus all’interno della struttura sanitaria apra la strada ad ipotesi di responsabilità in capo alla stessa.
In tale contesto, per valutare l’esistenza di responsabilità della struttura occorre accertare in primis la sussistenza di una relazione causale tra la prestazione sanitaria e l’infezione e va verificato se la condotta della struttura ospedaliera presenti profili di colpa causalmente ricollegabili al contagio, cioè se quest’ultimo dipenda o meno da una circostanza non imputabile alla stessa.
Al paziente toccherà provare che all’attività sanitaria è conseguita una patologia non presente prima del ricovero, mentre, per respingere l’addebito, la struttura sanitaria dovrà dimostrare che il danno subito dal paziente non è riconducibile alle sue responsabilità, e quindi che la prestazione erogata è stata correttamente adempiuta e che la patologia infettiva ha rappresentato una conseguenza inevitabile (e quindi, per quanto prevedibile, non prevenibile) a lei non imputabile.
In ambito giuridico, però, le soluzioni percorribili sembrano essere due: o il peggioramento è prevedibile ed evitabile, ed in tal caso sussisterà la responsabilità della struttura, oppure è imprevedibile ed inevitabile ed integra in tal modo gli estremi della causa non imputabile, ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Fondamentale il rispetto o meno delle misure di prevenzione conformi ai protocolli
Al fine della prova liberatoria, assume dunque valore decisivo dimostrare di aver tenuto un comportamento conforme alle leges artis, nel rispetto anche di eventuali norme regolamentari emanate dal Governo (ad esempio, con il Decreto Cura Italia con particolare riguardo alle RSA) e ponendo in pratica tutti gli strumenti organizzativi idonei a prevenire le infezioni ospedaliere perché i casi verificatisi possano intendersi come eventi imprevedibili ed invitabili.
Se la struttura è in grado di dimostrare di avere previsto e attuato compiutamente, in forma ufficiale o comunque documentabile, la realizzazione di misure di prevenzione e isolamento conformi ai protocolli e alle indicazioni specifiche e in via più generale alle buone pratiche assistenziali in materia di malattie gravemente contagiose, si potrà ritenere che la stessa abbia soddisfatto le obbligazioni derivanti dal rapporto di spedalità. Se invece ai dipendenti può essere imputata una omissione in proposito, allora la responsabilità diretta è in capo a loro e la struttura può essere chiamata a rispondere solo indirettamente.
Diversamente, qualora la struttura sanitaria non possa dimostrare di avere previsto e disposto le misure necessarie a isolare i soggetti anche solo potenzialmente “pericolosi” allo scopo di prevenire i contagi, è evidente la sua responsabilità diretta e immediata, mentre gli operatori, eventualmente, possono essere ritenuti corresponsabili solo in via indiretta.
Come può agire che è rimasto contagiato in ospedale
Nei casi in cui un cittadino sia stato contagiato dal Coronavirus all’interno della struttura sanitaria, per accertare le responsabilità si dovrebbe, dunque, in primo luogo, verificare se la struttura sanitaria abbia omesso di fare quanto in suo potere per evitare la lesione alla salute e ai diritti del cittadino danneggiato, e se il singolo operatore sanitario abbia assunto comportamenti omissivi, in particolare rispetto alle direttive ricevute dalla struttura sanitaria, o comportamenti colposi, che possano essere ragionevolmente considerati quali causa diretta della lesione alla salute psicofisica del paziente.
Non bisogna infatti dimenticare che il legame eziologico tra la condotta (commissiva o omissiva) e l’evento rappresenta la condizione imprescindibile per l’attribuzione del fatto illecito (e, conseguentemente, del danno) al soggetto: in altre parole, la modificazione del mondo esterno (l’evento) può essere imputata ad una persona solo se la stessa sia conseguenza della sua condotta.
Tale esigenza è statuita, con valenza generale, dal primo comma dell’art. 40 c.p. secondo il quale “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”.
In conclusione, davanti alla straordinarietà dell’evento pandemico, gli esercenti la professione sanitaria hanno sicuramente dovuto risolvere – soprattutto nelle fasi iniziali dell’emergenza pandemica – problemi di speciale difficoltà (art. 2236 c.c.) che non sussisterebbero in circostanze ordinarie e di cui non si può non tener conto. E’ indubbio, tuttavia, che in ipotesi di diffusione del virus all’interno della struttura sanitaria ci si trovi di fronte ad una responsabilità di tipo omissivo, per non aver impedito l’ingresso e la diffusione del contagio al suo interno causando l’infezione dei pazienti (oltre che, in molti casi, dello stesso personale sanitario): la valutazione del grado di diligenza applicato dalla struttura nell’adottare le necessarie e obbligatorie misure di contenimento giocheranno il ruolo determinante per delineare la responsabilità posta in capo alla struttura stessa, anche alla luce del disposto normativo di cui alla Legge Gelli-Bianco.
Avv Ruggero Salomone, Foro di Milano