L’assicurazione delle “casalinghe” è limitata alla casa di famiglia
La questione sollevata dalla Corte d’appello di Salerno era (e resta) pertinente e di estrema attualità, ma alla fine la Corte costituzionale ha confermato la legittimità costituzionale della legge sull’assicurazione contro gli infortuni domestici anche nella parte – quella messa in discussione – nella quale si limita l’ambito all’interno del quale opera la copertura assicurativa per chi svolge, senza vincolo di subordinazione e a titolo gratuito, attività finalizzate alla cura delle persone e dell’ambiente domestico, al solo insieme degli immobili di civile abitazione e delle relative pertinenze ove dimora il nucleo familiare dell’assicurato, escludendo quindi altre abitazioni in cui tali attività vengano prestate in favore di familiari anche stretti ma non conviventi, per quanto bisognosi di assistenza.
Una decisione su cui hanno pesato argomentazioni giuridiche ma soprattutto la “ragion di stato”, ovvero la tenuta economica del sistema assicurativo: per dare un quadro generale, parliamo di circa un milione e mezzo di persone (per lo più donne) assicurate, ma ne avrebbero diritto oltre cinque milioni.
Il marito di una donna vittima di un infortunio domestico mortale presso i genitori cita l’Inail
Il pronunciamento della Consulta, con la sentenza n. 202/22 pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 3 agosto 2022, trae origine da una vicenda tragica. Nel gennaio 2015 il marito di una donna deceduta a causa di un grave incidente domestico, che però era accaduto presso l’abitazione degli anziani genitori di cui si prendeva cura, aveva proposto ricorso avanti il Tribunale ordinario di Vallo della Lucania, in funzione di giudice del lavoro, per ottenere la condanna dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro a corrispondergli la rendita da infortunio e l’assegno funerario maturato in seguito al decesso della moglie, titolare di assicurazione contro gli infortuni domestici, ex legge n. 493 del 1999, gestita per l’appunto dall’Inail. Il quale si era costituito resistendo e obiettando che l’infortunio era intervenuto in un ambito spaziale diverso da quello in cui viveva e dimorava il nucleo familiare dell’assicurata.
Richiesta di indennizzo respinta perché l’incidente non era successo nella casa dell’assicurata
E con sentenza del 25 gennaio 2019, il Tribunale aveva dato ragione all’istituto respingendo il ricorso sul rilievo, per l’appunto, che l’infortunio era occorso presso l’abitazione dei genitori dell’assicurata e non presso la sua casa coniugale, e che era rimasto non provato che la stessa dimorasse abitualmente presso i genitori.
Secondo la Corte d‘Appello questa limitazione “spaziale” è incostituzionale
Il ricorrente ha quindi appellato la decisione presso la Corte d’Appello di Salerno, che ha ritenuto di promuovere un giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, lettera b), della legge 3 dicembre 1999, n. 493 (Norme per la tutela della salute nelle abitazioni e istituzione dell’assicurazione contro gli infortuni domestici), nell’ambito del procedimento in questione tra il marito della vittima e l’Inail, con ordinanza del 26 novembre 2021. La rimettente ha ritenuto di non poter decidere la fattispecie sottoposta al suo esame indipendentemente dalla soluzione della questione di legittimità costituzionale della norma che ne era oggetto, in ragione dell’inequivoco tenore letterale della stessa, che ne portava ad escludere ogni interpretazione estensiva, nella incontestata non convivenza dell’assicurata presso l’abitazione dei genitori, in cui si era verificato l’infortunio domestico.
Le ragioni del giudice rimettente
Il giudice ha ipotizzato il contrasto della disposizione censurata con una pluralità di parametri costituzionali: l’art. 3, per la disciplina irragionevolmente differenziata di situazioni sostanzialmente eguali; gli artt. 2 e 29, per la violazione dei doveri di solidarietà su cui si conformano i rapporti tra genitori e figli all’interno della famiglia; gli artt. 35 e 38, per la lesione della tutela riservata dalla Costituzione al lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e al diritto dei lavoratori a godere degli strumenti previdenziali ed assicurativi adeguati alle loro esigenze di vita; l’art. 117, primo comma, per il vulnus ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
La Corte d’appello ha quindi ricordato, quale ragione del dibattito al cui esito fu adottata la legge in esame, la sentenza della stessa Corte Costituzionale n. 28 del 1995, con la quale era stata affermata “l’equiparabilità del lavoro eseguito nell’ambito familiare, con il relativo elevato valore sociale ed economico, ad altre forme di lavoro”; e di quella stessa sentenza ha riproposto le argomentazioni, per sostenere la necessità costituzionale dell’estensione della tutela assicurativa del lavoro domestico a quello prestato al di fuori del nucleo familiare. Nel ripercorrere la motivazione di questo precedente, nell’ordinanza di remissione è stata richiamata la disciplina dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis del codice civile, nella parte in cui il lavoro reso all’interno della famiglia viene valutato alla stregua di quello prestato nell’impresa senza necessità di una convivenza “nella stessa abitazione dei familiari partecipanti all’impresa”.
I giudici salernitani hanno altresì richiamato la Risoluzione del Parlamento europeo del 13 gennaio 1986 (peraltro citata nella sentenza n. 28 del 1995) sulla creazione di condizioni di mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale, individuata come norma interposta. Anche se in realtà, l’oggetto della risoluzione, come riportato dalla stessa ordinanza di rimessione, è piuttosto riferibile alla risoluzione 13 settembre 2016. Della richiamata risoluzione il giudice ha quindi indicato i contenuti, relativamente ai paragrafi n. 34 e n. 37, in cui “si invitavano gli Stati membri a riconoscere il valore del lavoro svolto dai prestatori di assistenza ai familiari (non solo conviventi) per la società nel suo complesso” e quello delle “persone che dedicano il proprio tempo e le proprie competenze alla cura delle persone anziane e non autosufficienti, senza alcuna limitazione all’assistenza ai soli familiari conviventi”, sostenendo che la risoluzione muoveva, anche, dalle “considerazioni della messa in discussione del concetto tradizionale … di famiglia nucleare” e dalla necessità di favorire la “solidarietà tra le generazioni” nel rispondere “alle sfide dell’invecchiamento della società”, e rimarcando infine, in questa cornice, il ruolo assunto dalle donne, chiamate a far fronte “a un certo punto della loro vita alla cura di nipoti e/o genitori anziani”.
Ancora, la Corte territoriale ha sottolineato come la solidarietà tra generazioni, ispiratrice della citata risoluzione europea, venisse proprio in considerazione nella fattispecie in esame, in cui una figlia, nell’osservanza dei propri doveri familiari ed evitando il ricorso a dispendiose prestazioni assistenziali, da porsi altrimenti a carico della collettività, si era recata presso l’abitazione, non distante dalla propria, dei genitori, con problemi di salute, per “aiutarli”.
L’identità di ratio tra le descritte situazioni di lavoro secondo i giudici campani renderebbe non comprensibile il riconoscimento, ai sensi dell’art. 35 Cost. e con la tutela previdenziale di cui al successivo art. 38, della sola attività svolta in favore del nucleo familiare convivente nella medesima dimora e non anche di quella resa agli anziani genitori dimoranti altrove.
Un’incoerenza intrinseca connoterebbe, dunque, i contenuti della norma, nell’operato raffronto tra i commi 1 e 2 dell’art. 6 della legge n. 493 del 1999, là dove il legislatore, da una parte, riconosce e tutela il lavoro svolto in ambito domestico, affermandone il valore sociale per i vantaggi che l’intera collettività ne trae, e dall’altra, in modo discriminatorio, limita il perimetro applicativo dello strumento assicurativo previsto a riconoscimento del primo confinando “l’ambito domestico”agli immobili in cui dimora il nucleo familiare convivente dell’assicurato, con esclusione di quello dei familiari, stretti e non conviventi, “per quanto bisognosi di assistenza domestica”.
La difesa dell’Inail
Nel giudizio innanzi alla Corte Costituzionale si è ovviamente costituito l’Inail, chiedendo che la questione fosse dichiarata inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata. L’Istituto ha sostenuto invece il carattere non “pertinente” della sentenza della Corte Costituzionale n. 28 del 1995, evocata nell’ordinanza di rimessione a sostegno del sollevato dubbio di legittimità costituzionale, essendo questa stata resa in una fattispecie in cui veniva riconosciuto specifico rilievo all’attività lavorativa casalinga svolta da una cittadina extracomunitaria in ambito familiare – prestazione che era stata assimilata alle forme di “occupazione” legittimanti l’attivazione dell’istituto del ricongiungimento familiare – nell’affermazione, di principio, che “anche la cittadina extracomunitaria che presti, nel nostro Paese, lavoro all’interno della propria famiglia deve essere ricompresa nel novero dei lavoratori che hanno diritto al ricongiungimento con i figli minori che risiedono all’estero”.
La disciplina contenuta nella disposizione censurata, secondo l’Inail, non si sarebbe posta in contrasto con il valore sociale assegnato dalla legge al lavoro “domestico” familiare, ma valeva solo a fissare i limiti soggettivi ed oggettivi dell’introdotta tutela assicurativa, e tanto nella “peculiarità”della riconosciuta prestazione lavorativa. La disposizione stessa, ha proseguito l’Istituto nella sua difesa, indica a definizione dell’infortunio domestico la “dimora” del nucleo familiare e non la “residenza”, con esclusione della “abituale residenza” di cui all’art. 43 cod. civ., e con la conseguenza che l’infortunio è tutelato anche se avviene in un luogo di “temporanea dimora”, purché il lavoro domestico sia finalizzato, in via esclusiva, alla cura delle persone e dell’ambiente domestico del nucleo familiare.
Per “ambiente domestico”, pertanto, ha chiarito da parte sua l’istituto, deve intendersi un concetto “più articolato” che include le persone che dimorano nell’ambito domestico e le loro esigenze di vita, anche di relazione, e per “nucleo familiare” il complesso di persone caratterizzato da convivenza e reciproca assistenza. Evidenze confermate nel decreto attuativo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 15 settembre 2000 (Modalità di attuazione dell’assicurazione contro gli infortuni in ambito domestico), ove si è stabilito che l’assicurazione è obbligatoria per ciascun componente il nucleo familiare che svolga in via esclusiva e a titolo gratuito attività di lavoro in ambito domestico, e nelle circolari Inail: più precisamente, l’istituto ha citato la n. 6 dell’11 febbraio 2021, la quale dispone che, ai fini assicurativi, per nucleo familiare deve intendersi la famiglia anagrafica come definita dall’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, recante “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente”: ossia, “un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitati e aventi dimora abituale nello stesso comune”, con la precisazione che “il nucleo familiare può essere costituito da una sola persona”.
Il lavoro domestico-familiare, ha altresì e soprattutto fatto notare l’Inail, non ha ricevuto nella norma in scrutinio un riconoscimento formale come attività lavorativa “in senso proprio”, e, nel suo carattere “speciale”, non inquadrabile né nel lavoro autonomo né in quello subordinato, esso non sarebbe dunque assoggettabile alla previsione di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., con la conseguenza che l’infortunio in ambito domestico non può essere equiparato all’infortunio sul lavoro.
La natura di strumento di “assistenza sociale”, piuttosto che di “previdenza”, della attuata tutela del lavoro domestico – che esclude l’applicabilità della disciplina degli infortuni sul lavoro e le malattie professionali contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), e nel decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 (Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144), intesa a garantire tutela privilegiata a tutti i lavoratori infortunati e tecnopatici ‒ risulterebbe provato, ha sostenuto sempre l’Inail, dalla mancata previsione della cosiddetta automaticità delle prestazioni, che garantisce copertura assicurativa anche in mancanza del pagamento del premio da parte del prestatore di lavoro domestico-familiare.
Secondo l’Istituto, andava poi esclusa la violazione dell’art. 35 Cost., non potendo la situazione dei lavoratori domestico-familiari essere equiparata a quella dei “lavoratori tutelati in generale”, ai quali la protezione assicurativa è “garantita rispetto ad ogni rischio cagionato dal lavoro”. La obiettiva diversità di situazioni tra il lavoro domestico reso in favore del familiare convivente presso l’abitazione della famiglia e quello prestato in favore di altri soggetti, ancorché legati da vincoli affettivi, nei diversi ambienti in cui costoro dimorano, escluderebbe pertanto la violazione del principio di uguaglianza e la dedotta disparità di trattamento. La differente disciplina riservata ai lavoratori, in genere, ed ai lavoratori domestico-familiari, questi ultimi nei diversi contesti familiari di convivenza, o meno, poggia, pertanto, ha concluso l’Istituto, su di un bilanciamento di valori, che, di competenza del legislatore, nella norma in scrutinio non appare affatto irragionevole e non sostiene il dedotto dubbio di legittimità costituzionale.
L’ampliamento oggettivo e soggettivo della tutela comporterebbe – pena gli squilibri di bilancio cui andrebbe incontro l’Istituto stesso, che provvede a gestire questa forma di tutela erogando, in via straordinaria, prestazioni ai destinatari della legge ‒ un inevitabile aumento dei costi dell’assicurazione, necessario ad alimentare il fondo con cui vengono corrisposti gli indennizzi, là dove il cosiddetto premio assicurativo unitario, gravante sui soggetti assicurati e ritenuto congruo, è stato fissato in termini molto contenuti (oggi 24 euro all’anno) e posto a carico della fiscalità generale per i non abbienti. In conclusione, secondo l’istituto l’intervento richiesto alla Consulta non risponderebbe, pertanto, a un’omissione del legislatore rispetto ad “una diversa possibile soluzione desumibile dal contesto normativo” (vengono richiamate le sentenze n. 308 e n. 258 del 1994 e n. 298 del 1993, su pronunce additive e a rime obbligate), toccando, piuttosto, nel bilanciamento dei diritti garantiti, inevitabili riflessi di ordine finanziario, per scelte attribuite alla discrezionalità del legislatore, salva la loro patente irragionevolezza.
La Corte Costituzionale analizza il quadro normativo generale e rigetta i dubbi costituzionali
La Consulta rileva innanzitutto che la sentenza n. 28 del 1995, richiamata dalla ordinanza di rimessione a fondamento del sollevato dubbio di legittimità costituzionale, non è in realtà pertinente, come osservato dall’Inail. “I principi affermati in quella sentenza traevano origine, infatti, da un diverso contesto, relativo alla pari dignità tra il lavoro casalingo e quello svolto al di fuori dell’abitazione familiare e contrassegnato dalla pure affermata parità di genere tra donna e uomo, nel quale si stabiliva l’assimilazione dell’attività lavorativa casalinga resa da una cittadina extracomunitaria alle forme di “occupazione” legittimanti l’attivazione dell’istituto del ricongiungimento dei figli minori residenti all’estero (art. 4, comma 1, della legge 30 dicembre 1986, n. 943, recante «Norme in materia di collocamento e trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine» abrogato, a far data dal 2 settembre 1998, dall’art. 47, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero» e sostituito dall’art. 29 dello stesso decreto legislativo)” spiegano i giudici della Consulta, i quali dichiarano poi inammissibile anche la questione in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., “perché sollevata in relazione ad un parametro, la Risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016, non idoneo a tal fine”.
A quanto punto la Corte costituzionale opera una ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale all’interno del quale si inserisce la legge n. 493 del 1999, “che si radica -spiega la sentenza -, nell’intento di darvi completamento, nell’ambito di quel percorso di riconoscimento di pari dignità, rispetto alle forme di lavoro svolto fuori casa, alla prestazione domestico-familiare, nella sua importante valenza sociale e giuridica, anche in quanto portatrice di un risparmio di elevati costi sociali”: un cammino intrapreso con la legislazione adottata in materia pensionistica, e, in particolare, con l’art. 9 della legge 5 marzo 1963, n. 389 (Istituzione della “Mutualità pensioni” a favore delle casalinghe), poi oggetto di intervento della stessa Corte Costituzionale, che, con la sentenza n. 78 del 1993, ne aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevedeva un meccanismo di adeguamento dell’importo nominale dei contributi versati.
Nel tempo, quella disciplina ha ricevuto un riordino con il decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565 (Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 33, della L. 8 agosto 1995, n. 335, in materia di riordino della disciplina della gestione “Mutualità pensioni” di cui alla L. 5 marzo 1963, n. 389), che ha sostituito la previgente mutualità pensioni con un “Fondo di previdenza per le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari”, nella previsione che a tale fondo “possono altresì iscriversi, su base volontaria, i soggetti che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta” (art. 1, comma 2)
“Nel percorso di valorizzazione del lavoro domestico-familiare – persegue la Consulta – si è inserita anche la giurisprudenza di legittimità, che si è spesa nell’affermazione dell’autonoma risarcibilità del danno patrimoniale subìto da chi svolge attività casalinga. In quanto conseguenza della riduzione della capacità lavorativa “specifica”, l’attività domestico-familiare non è più destinata a convergere, ai fini risarcitori, nella diversa categoria del danno biologico (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenze 3 marzo 2005, n. 4657, 13 luglio 2010, n. 16392)”
In questo contesto storico, il tema del lavoro casalingo diviene altresì occasione per l’affermazione di più articolati principi sul rilievo costituzionale del lavoro e dei diritti della donna lavoratrice di cui agli artt. 4 e 37 Cost. (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenze 11 dicembre 2000, n. 15580, 20 ottobre 2005, n. 20324) e in tema di incombenze domestiche (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 8 novembre 2014, n. 24471).
Il quadro di riferimento consente pertanto di cogliere nella legge in esame l’occasione per il legislatore nazionale – in una prospettiva segnata dall’esigenza di far fronte al fenomeno degli infortuni domestici con la finalità di arginarne i costi per la collettività – di superare la contrapposizione tra lavoro domestico ed extra-domestico, attribuendo al primo, nell’intento di colmare un vuoto di tutela, pari dignità rispetto alle altre forme di lavoro svolte fuori casa, attraverso il riconoscimento di uno strumento di garanzia assicurativa.
La legge in questione
Dunque, all’interno di una più ampia cornice definita, anche, dalla necessità di dare risposta ad esigenze di prevenzione – la cui soddisfazione è affidata nella legge in esame agli strumenti dell’informazione ed educazione della platea dei destinatari (Capo II, rubricato “Prevenzione degli infortuni negli ambienti di civile abitazione”, artt. 3, 4 e 5) -, “il legislatore del 1999 – prosegue la Corte Costituzionale – ha provveduto ad istituire una forma assicurativa obbligatoria per la tutela dal rischio infortunistico, con il riconoscimento dell’invalidità permanente derivante dal lavoro svolto in ambito domestico (Capo III, rubricato «Assicurazione contro gli infortuni in ambito domestico», articoli da 6 a11). L’opzione esercitata attribuisce peraltro una garanzia assicurativa nella perseguita finalità di accordare più ampia tutela al disciplinato fenomeno all’interno di un perimetro fattuale contrassegnato dalla registrata imputabilità degli incidenti domestici, appartenenti alla “quotidianità” degli individui, alla mera casualità o alla stessa disattenzione della vittima o dei suoi familiari”.
La legge provvede quindi ad individuare, per richiamo a fasce di età, i destinatari della norma, e, insieme agli eventi assicurati, le percentuali di “inabilità permanente” cui riconoscere copertura assicurativa, il premio annuo, di importo come detto contenuto (fissato in 25mila di allora vecchie lire, pari a 12,91 euro, e portato ad euro 24 annui dall’art. 1 , comma 534, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019- 2021”) ed i soggetti onerati, prevedendo, altresì, un meccanismo che, per i non abbienti, pone a carico della fiscalità generale l’intero importo (articoli da 6 a 9).
“La natura obbligatoria del mezzo, che diviene operativo se ed in quanto l’assicurato iscritto versi annualmente il premio prestabilito – puntualizza poi la Consulta -, lo sottrae al principio dell’automaticità della protezione, destinato, invece, a valere per tutti gli altri lavoratori, soggetti alla generale tutela previdenziale di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali)”.
Secondo i giudici, l’andamento del “Fondo autonomo speciale” (art. 10), istituito presso l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro con contabilità separata, e nel quale confluiscono i premi versati, ha consentito, in un contesto di attuazione definito da leggi finanziarie e di bilancio, decreti interministeriali di attuazione della norma primaria e circolari esplicative, nel tempo susseguitisi (da ultimo, la legge 30 n. 145 del 2018; la circolare Inail dell’11 febbraio 2021, n. 6; il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, del 13 novembre 2019), di migliorare ed estendere le prestazioni erogate, ampliando le fasce di età della platea dei beneficiati, rivedendo al ribasso le percentuali di invalidità ammesse a garanzia, e diversificando i prodotti assicurativi offerti, nel tempo comprensivi della rendita da infortunio mortale (decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, 31 gennaio 2006, recante “Estensione dell’assicurazione contro gli infortuni in ambito domestico ai casi di infortunio mortale”).
La Corte Costituzionale, riprendendo quanto esposto dalla difesa dell’Inail, nella “Nota tecnica” depositata in pubblica udienza in risposta agli “specifici quesiti” di cui all’art. 10, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi, evidenzia poi come la gestione infortuni in ambito domestico resti sorretta da un sistema finanziario “a capitalizzazione” che rinviene la sua condizione di equilibrio su di un “Premio Medio Generale”, costante per tutta la durata della gestione, in via teorica illimitata, e uguale per ogni assicurato. Il “premio medio”, in quanto commisurato al rischio proprio dell’intera collettività garantita, e non calibrato in modo specifico sul singolo assicurato, “rispetta il principio della solidarietà oltre che della mutualità tra assicurati, consentendo la copertura assicurativa anche di coloro per i quali maggiore è il bisogno di tutela. Tanto premesso, nella definizione e tipizzazione degli infortuni assicurati, la legge n. 493 del 1999 ripartisce il rischio indennizzabile all’interno di una “solidarietà di categoria”, cosicché gli eventi coperti da garanzia assicurativa non ricomprendono tutti gli incidenti che si verificano negli ordinari luoghi di vita del soggetto assicurato, ma solo quelli che derivano “dal lavoro svolto in ambito domestico” (art. 1), nel riconosciuto valore sociale ed economico della prestazione”.
L’art. 6 della legge n. 493 del 1999, prosegue nella sua disamina la sentenza, dopo aver previsto, al comma 1, che “lo Stato riconosce e tutela il lavoro svolto in ambito domestico, affermandone il valore sociale ed economico connesso agli indiscutibili vantaggi che da tale attività trae l’intera collettività”, affida alle successive proposizioni, contenute al comma 2, rispettivamente sub lettere a) e b), la definizione del lavoro domestico e, a mezzo delle sue affermate coordinate soggettive e oggettive – rispettivamente integrate dal “nucleo familiare” dell’assicurato e dall’“ambiente domestico” in cui il primo dimora –, la tipizzazione del rischio assicurato. “L’infortunio indennizzabile resta così fissato in quello occorso all’assicurato impegnato, nella resa prestazione casalinga, in favore del/dei componente/i del nucleo familiare convivente nel medesimo ambiente domestico. Il legislatore, dopo avere precisato, alla lettera a) del comma 2 dell’art. 6, che per “lavoro svolto in ambito domestico” si intende l’insieme delle attività prestate “senza vincolo di subordinazione e a titolo gratuito, finalizzate alla cura delle persone e dell’ambiente domestico”, individua alla successiva lettera b) – la disposizione oggetto del contendere − “l’ambito domestico” come “l’insieme degli immobili di civile abitazione e delle relative pertinenze ove dimora il nucleo familiare dell’assicurato» ivi incluse le eventuali «parti comuni condominiali”. “Per gli indicati contenuti – sottolinea la Consulta – la nozione di famiglia di cui si avvale il legislatore del 1999 nel disciplinare il rischio assicurato in materia di infortuni domestici è quella già utilizzata da una risalente sentenza della Corte di cassazione”.
Chiamato infatti a pronunciare sulla decadenza del conduttore dal diritto alla proroga legale della locazione immobiliare per disponibilità di altra abitazione familiare (art. 3 della legge 23 maggio 1950, n. 253, recante «Disposizioni per le locazioni e sublocazioni di immobili urbani»), il giudice di legittimità richiama espressamente il principio secondo il quale “per nucleo familiare deve intendersi il complesso delle persone abitualmente conviventi, legate da vincoli di sangue o di affinità o da obblighi di mutua assistenza (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 5 settembre 1963, n. 2431)”.
L’abitualità della convivenza e della dimora del nucleo familiare – fa altresì notare la Consulta – segna anche la stretta dimensione anagrafica del fenomeno (ex art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, recante “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente” nella versione modificata dall’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5 recante “Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76”, la famiglia è “un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso comune» e può essere costituito da una sola persona).
“Non qualsiasi condivisione di spazi rileva, pertanto, al fine di riconoscere il diritto all’indennizzo assicurativo per infortunio domestico ex art. 6 qui scrutinato – conclude questa prima parte della sentenza la Consulta -, ma solo quella che, dovendosi apprezzare per una sua raggiunta stabilità, chiama in gioco, per ciò stesso, convivenze familiari integrate, quanto meno, da comuni regole di vita e condivisioni di mezzi”.
Accolte le eccezioni dell’Inail, la Consulta non può alterare l’intero sistema assicurativo
A questo punto la Corte costituzionale esamina preliminarmente la eccezione di inammissibilità sollevata dall’Inail, che ha sostenuto il carattere eccessivamente “manipolativo” della pronuncia sollecitata, in una materia caratterizzata dalla discrezionalità delle scelte del legislatore: una eccezione ritenuta fondata dai giudici, che spiegano. “L’ordinanza di rimessione, nel raffronto tra la situazione denunciata e i rilievi di illegittimità costituzionale svolti, propone due distinti piani di scrutinio: l’uno, segnato dal riconoscimento di uno strumento assicurativo a tutela di posizioni previdenziali insorte in ambito domestico-familiare, e l’altro, che si collega al welfare statale, contraddistinto dalla creazione di una rete di servizi di preferenziale accesso e di un sistema di benefici, anche fiscali, a sostegno dei cittadini che, impegnati in favore delle persone inabili e non autosufficienti, vengono in tal modo sollevati dalla stringente quotidianità di cura dell’altro, bisognoso”.
Ebbene “il carattere autonomo delle due prospettive di tutela, che pure potrebbero presentare profili convergenti”, non consente alla Corte Costituzionale “l’individuazione di una soluzione diretta ad alterare l’intero sistema assicurativo introdotto dalla legge n. 493 del 1999, che si presenta, per i contenuti e le finalità sue proprie, compiuto. Esso denuncia, per i suoi stessi contenuti – che sono connotati da un chiaro aggancio ad una prestazione lavorativa, quella casalinga, sia pure sui generis in quanto gratuita e senza vincolo di subordinazione –, la propria appartenenza alle tutele previdenziali, per un meccanismo diretto a precostituire i mezzi necessari a soddisfare bisogni futuri del prestatore di lavoro. Il dubbio di legittimità costituzionale della rimettente oggettivamente coinvolge, invece, il diverso settore segnato da esigenze assistenziali e solidaristiche che rinvengono soddisfazione nelle politiche del welfare nazionale, intese come complesso di iniziative statali e pubbliche, in genere, volte a tutelare il benessere della popolazione al fine di migliorarne la vita lavorativa e privata, garantendo l’accesso alla fruizione dei servizi pubblici essenziali”.
Ora, con il progressivo invecchiamento della popolazione all’interno degli Stati europei e l’accresciuto bisogno di assistenza a lungo termine, si è affermato, prosegue la Consulta, il modello dei “caregivers”, integrato da figure di familiari ed amici che si prendono cura, in maniera gratuita e continuativa, di una persona anziana, non autosufficiente e/o disabile. Il legislatore nazionale ha dato ingresso, con la legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), al Fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare (art. 1, comma 254), nel contempo introducendo la figura della persona che assiste e si prende cura del coniuge, convivente dello stesso sesso, o di fatto, del familiare, entro il terzo grado, o affine, non autosufficiente per malattia, infermità o disabilità, anche croniche e degenerative, che sia stato riconosciuto invalido perché bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata, ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili).
Nel tempo sono stati presentati vari disegni di legge (Atto Senato n. 1461 – XVIII Legislatura; Atti Senato n. 2128 e n. 2266 – XVII Legislatura) ed una pluralità di proposte di legge (Atti Camera n. 3527 e n. 3414 – XVII Legislatura) finalizzati al riconoscimento e al sostegno del “caregiver familiare”, in cui si inserisce l’attribuzione al familiare impegnato nell’assistenza di una tutela previdenziale e di agevolazioni fiscali, ed il riconoscimento al “caregiver” lavoratore del diritto di rimodulare l’orario di lavoro esterno e di scegliere, con preferenza, la sede più vicina alla casa del familiare assistito e l’accesso, per percorsi preferenziali, alle prestazioni sanitarie.
A tali interventi si sono aggiunte iniziative sovranazionali quale, da ultimo, la direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio, adottata sui principi di parità di genere e di equilibrio tra attività professionale e vita familiare, in riaffermazione ed elaborazione dei principi del pilastro europeo dei diritti sociali, proclamato dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione il 17 novembre 2017.
I temi sollevati coinvolgono il welfare e competono al legislatore
“Si tratta di temi – aggiunge la Consulta – che, correndo lungo la comune direttrice del sostegno e della cura, finiscono per accostare – nella convergenza di ratio delle correlate discipline – alle posizioni dei soggetti bisognosi quelle di coloro che gratuitamente prestano assistenza. È evidente l’attenzione attribuita da questa Corte al tema della solidarietà e dell’aiuto destinati a valere anche tra generazioni all’interno della famiglia (si leggano in particolare le affermazioni di principio sui valori di solidarietà familiare di cui alla sentenza n. 232 del 2018, con cui si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53», con ampliamento della platea dei beneficiari del congedo straordinario dal lavoro ivi previsto al figlio che, al momento della presentazione della richiesta, ancora non conviva con il genitore in situazione di disabilità grave)”.
Ciò però, aggiungono i giudici, “non consente di coniugare lo strumento assicurativo di cui alla legge n. 493 del 1999 con il più ampio individuato contesto. Della disciplina dell’indennizzo assicurativo si chiederebbe, infatti, nella richiamata più ampia cornice, una riforma di sistema, che amplierebbe le categorie dei destinatari implicando scelte discrezionali (quale, ad esempio, la decisione se ad individuare i soggetti beneficiati valgano le sole relazioni familiari e di parentela – e quali − o, anche, ragioni di amicizia e riconoscenza). L’esigenza di evitarne un utilizzo in frode non consentirebbe l’estensione incontrollata della misura e dovrebbe suggerire, ad esempio, un obbligo di registrazione per i “caregivers”, quali fruitori di polizza, che operino per persone in situazione di comprovato bisogno, il tutto per una disciplina già nota a contesti stranieri (si pensi, in particolare, all’esperienza tedesca, con la registrazione come “Pflegeperson” o persona dedita alla cura del familiare o di altra persona – a sua volta formalmente inquadrata come persona bisognosa di cosiddetto secondo livello – che opera presso la propria o altrui abitazione e che per legge viene assicurata contro gli infortuni durante tutte le attività di cura svolte, ivi incluse quelle domestiche, senza dover versare alcun contributo, paragrafo 19 dell’undicesimo Libro del Codice Sociale, SGB XI)”.
Resterebbe poi da valutare, prosegue la Corte Costituzionale, “l’operatività dell’ampliamento della categoria dei beneficiari all’interno della logica assicurativa che presiede al riconoscimento dell’indennizzo infortuni ex legge n. 493 del 1999, in cui all’allargamento della platea dei destinatari dovrebbe, come rilevato dall’Inail, conseguire l’incremento del premio versato in una misura che avrebbe l’effetto di scardinare gli equilibri tra entrate ed uscite in un sistema guidato, nella gestione finanziaria, dall’applicazione del metodo della capitalizzazione dei contributi. La molteplicità delle soluzioni praticabili quanto a soggetti e contesti assicurabili, non contenuta e univocamente veicolata, nella sua composizione, dalle esigenze di cura ed assistenza dell’altro, non può essere assunta come grandezza o misura di riferimento da parte di questa Corte, con la conseguenza che il sollecitato intervento si denuncia, come tale, inammissibile, dovendo invece ricadere sul legislatore la scelta dei mezzi più idonei a realizzare la tutela del fine costituzionalmente necessario (sentenza n. 151 del 2021).
“Nel senso di una conclusione di inammissibilità della sollevata questione converge la necessità di operare una revisione organica della materia in esame nella composizione della pluralità degli interessi in gioco, altrimenti affidata a scelte “eccessivamente manipolative” di questa Corte, destinate ad incidere sulla stessa funzionalità dell’assetto previsto dalla norma, con conseguenti disarmonie di sistema (sulla necessità di una revisione di sistema quale limite di ammissibilità della questione con cui si solleciti l’intervento della Corte costituzionale: sentenza n. 101 del 2022 ed in senso analogo: sentenze n. 143, n. 100 e n. 1 del 2022; sentenze n. 151, n. 33 e n. 32 del 2021; sentenze n. 80 e n. 47 del 2020 e sentenza n. 23 del 2013)” conclude la Consulta, che tuttavia, nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità sollevate, tiene a ribadire come “la doverosa attenzione e sensibilità ai temi della solidarietà e dell’aiuto rispetto a posizioni di bisogno segnalati dalla ordinanza di rimessione interpellano questa Corte, in una diversa prospettiva di valutazione, ad un forte richiamo al legislatore, affinché la rete sociale sia rinsaldata attraverso la individuazione dei più idonei strumenti e delle più adeguate modalità di fruizione delle prestazioni in esame”.