Trasporto disabili: chi risponde in caso di infortunio?
Un soggetto, nella fattispecie una cooperativa sociale, addetta a un servizio di trasporto appositamente dedicato a persone con disabilità, e che come tali richiedono particolari attenzioni, non può non rispondere dell’infortunio occorso a un utente a lei affidato, anche se questo si è verificato durante la discesa dal mezzo: in questi casi va tenuto come riferimento giuridico quanto stabilito per il trasporto scolastico.
Con una pregnante e rilevante sentenza, la n. 7922/23 depositata il 20 marzo 2023, la Cassazione ha reso giustizia ad una disabile grave la cui brutta caduta da un pulmino era stata bollata dai giudici di merito come fatto “accidentale”, senza alcun colpevole.
La sorella e tutrice di una donna disabile grave caduta dal pulmino chiede i danni
La sorella e tutrice di una donna affetta dalla nascita da oligofrenia, una grave forma di ritardo mentale e come tale invalida al cento per cento, aveva citato in causa l’Azienda Sanitaria e la cooperativa sociale a cui era stato affidato il servizio di trasporto socio-sanitario dei soggetti disabili per sentirle condannare al risarcimento dei danni patiti appunto dalla sorella a causa di una rovinosa caduta occorsale nell’aprile del 2004 mentre scendeva dal pulmino che utilizzava tutti i giorni per raggiungere il centro di terapia occupazionale di Riccione che frequentava, danni quantificati in 15.628 euro.
L’Asl, costituendosi, aveva declinato ogni responsabilità attribuendola in via esclusiva alla cooperativa a cui, a seguito di licitazione privata, aveva affidato il servizio, ottenendo di chiamare in causa la compagnia di assicurazione del mezzo, la quale però aveva eccepito l’inoperatività della garanzia Rc-auto, asserendo che il sinistro non era riconducibile a circolazione stradale ma a difetto di assistenza a persona incapace, e anche il proprio difetto di legittimazione passiva, non avendo alcun rapporto contrattuale con l’Asl, e ascrivendo la caduta a un fatto accidentale.
Il tribunale condanna al risarcimento la cooperativa che aveva in appalto il trasporto disabili
Il tribunale, con sentenza del 2010, aveva riconosciuto la responsabilità ex art. 2043 del codice civile alla cooperativa per non avere adottato le necessarie cautele, richieste dalle circostanze del caso, per salvaguardare l’incolumità della passeggera, tenuto conto delle sue condizioni fisiche e psichiche, condannandola, a tale titolo, al pagamento di 7.120,49 euro, ed escludendo invece, la responsabilità dell’azienda sanitaria, non ravvisando a suo carico né la culpa in eligendo del committente né una sua ingerenza nell’esecuzione del contratto di appalto che avesse degradato il ruolo dell’appaltatore del servizio a mero esecutore die suoi ordini.
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 2019, tuttavia, aveva totalmente riformato la decisione di prime cure, rigettando la domanda risarcitoria proposta dalla sorella della disabile e condannandola a restituire quanto ricevuto come risarcimento in esecuzione della sentenza di primo grado, e anche le spese di lite sostenute dalle controparti sia per il primo che per il secondo grado.
La donna a questo punto ha proposto ricorso per Cassazione lamentando il fatto che la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto della grave invalidità (del cento per cento) della sorella e dei suoi seri disturbi sul versante comportamentale relazionale, della cerebropatia neonatale, dell’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita, del fatto che beneficiasse dell’indennità di accompagnamento, come comprovato da tutta la documentazione prodotta, a cominciare dalla certificazione dal Dipartimento di Salute mentale dell’Asl, dal verbale della Commissione medica che aveva concesso l’accompagnatoria e dalla consulenza tecnica medico legale disposta durante la causa, da cui era emersa anche una condizioni di obesità che limitava ulteriormente l’autonomia di movimento della danneggiata, già compromessa da altre patologie.
Di più, secondo la ricorrente, la decisione die giudici si secondo grado sarebbe stata del tutto contraddittoria, perché questi, dopo aver premesso che la paziente era appunto invalida totale e affetta da oligofrenia, l’avevano di fatto ritenuta completamente autonoma dal punto di vista fisico e nell’espletamento delle attività di base e, quindi, non bisognosa di assistenza per salire e per scendere dal mezzo utilizzato per il trasporto dei disabili, contestando anche la circostanza, che non sarebbe stata corroborata da alcuna prova, secondo la quale lei, in qualità di tutrice, si sarebbe accordata con l’autista del pulmino affinché lasciasse la sorella davanti al portone di casa dove sarebbe stata in grado di entrare autonomamente, disponendo anche delle chiavi, così come quella secondo cui durante le gite organizzate dal centro occupazionale di Riccione dove era seguita si sarebbe mossa in autonomia, dando prova di essere in grado di salire e scendere le scale senza ausili.
La coop era tenuta all’obbligo di assistenza e doveva dimostrare di aver adottato ogni cautela
La sorella della disabile ha quindi censurato la sentenza impugnata laddove aveva escluso che la cooperativa non avesse alcuno obbligo di assistenza nei confronti della sorella a bordo del mezzo utilizzato per il suo trasporto; obbligo che, invece, sarebbe derivato dal fatto che era affetta da una disabilità grave, con la conseguenza che la coop sociale avrebbe dovuto dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a garantire al sua sicurezza e a prevenire l’infortunio occorso, avendo accettato, nella stipula del contratto di appalto, di trasportare persone con disturbi comportamentali e problemi fisici, di cui avrebbe dovuto garantire l’incolumità anche nelle fasi di salita e discesa dal mezzo: dunque, anche indipendentemente da una specifica previsione del contratto di appalto, che peraltro la Corte d‘Appello non avrebbe neppure esaminato, la cooperativa sarebbe incorsa in una chiara omissione colposa rilevante ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile.
Ancora, la ricorrente ha imputato alla Corte territoriale di non aver considerato che gli incidenti verificatisi in occasione della salita e discesa dal mezzo di trasporto andrebbero considerati come accaduti durante il viaggio, essendo operazioni accessorie della stessa prestazione di trasporto, omettendo quindi di applicare la presunzione di responsabilità di cui all’art. 1681 cod. civ., che prevede la responsabilità del vettore per i sinistri che colpiscono il passeggero se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. In questo modo i giudici avrebbero altresì violato la distribuzione dell’onere probatorio, dal momento che, nel caso di trasporto delle persone, è posto a carico del passeggero quello di provare il nesso di causa tra il trasporto e l’evento dannoso, ma è in capo al vettore l’onere di dimostrare, per andare esente dalla presunzione di responsabilità, che l’evento dannoso non era prevedibile né evitabile con l’uso della ordinaria diligenza.
Dunque, per riassumere, le doglianze poste fondamentalmente dalla ricorrente ruotavano tutte attorno alla questione se la cooperativa deputata al trasporto di disabili fosse o meno responsabile dei danni occorsi alla sorella, come più volte ricordato invalida al cento per cento e oligofrenica, cadendo dalla discesa dell’autobus che era solita prendere per recarsi al centro di terapia occupazionale dove era seguita.
E la Suprema Corte a questa domanda ha risposto totalmente in senso positivo, dando ragione su tutta la linea alla danneggiata e alla sua tutrice, e premettendo subito che la Corte d’appello aveva negato la responsabilità della coop sociale, attribuendo la caduta a un fatto accidentale, “con una motivazione illogica ed errata in diritto”.
Una illogicità che, spiegano gli Ermellini, emerge “in tutta evidenza dal fatto che la Corte distrettuale, pur avendo preso atto della condizione di salute e di vulnerabilità della vittima, ne ha escluso il rilievo perché ha dato peso alla (presunta) capacità di muoversi con una certa autonomia (sottolineando che era persino in possesso delle chiavi di casa e che aveva partecipato in precedenza a delle gite), al tipo di invalidità da cui era affetta (di tipo psichico e non fisico), nonché al fatto che né il Comune che aveva affidato il servizio alla cooperativa né la sorella tutrice avessero richiesto una particolare assistenza durante il tragitto e/o nelle più delicate fasi di salita e di discesa dal pulmino”.
Coop responsabile a maggior ragione avendo in carico un servizio di trasporto “sensibile”
La Cassazione obietta che la cooperativa in questione aveva in gestione il servizio di trasporto di disabili, “vale a dire di persone trovantesi in una situazione di conclamata vulnerabilità, le quali erano ad essa affidate, allo scopo di essere accompagnate dalla loro abitazione al luogo ove svolgevano terapia occupazionale e viceversa; la gestione da parte della cooperativa di tale servizio, anche e proprio perché riservato ad una particolare tipologia di utenti, privi, per essere fisicamente impediti, psichicamente disturbati o comunque in una condizione di difficoltà, della capacità di assumere ed attuare pienamente le proprie opzioni e scelte di carattere domestico ed esistenziali, le imponeva l’adozione di modalità di gestione del servizio di trasporto/accompagnamento che comprendessero tutte le idonee cautele, in concreto, necessarie ed esigibili da un operatore diligente (cioè attento ed oculato), prudente (cioè che adottasse le misure precauzionali richieste dalla fattispecie concreta) e perito (cioè di provata conoscenza e capace di sapiente attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione)”.
Sul trasporto dei disabili vanno applicati i principi giurisprudenziali di quello scolastico
Insomma, secondo i giudici del Palazzaccio il ragionamento dei giudici di merito si rivela innanzitutto “incongruo ed illogico“, perché non ha tratto le conseguenze, sul piano della responsabilità della cooperativa, “derivanti dai bisogni e dalle esigenze degli utenti del servizio di trasporto erogato”: un dato che, sottolinea la Cassazione, emerge in tutta evidenza dalla critica, peraltro non supportata da alcun argomento, con cui i giudici di secondo grado avevano censurato la sentenza di prime cure che aveva esteso alla fattispecie oggetto del contenzioso i principi giurisprudenziali relativi al servizio di trasporto scolastico. Un’analogia ritenuta “inconferente” dalla Corte d’Appello al contrario della Suprema Corte, la quale ritiene invece che proprio l’indirizzo giurisprudenziale adottato dal primo giudice e disatteso in appello offra “una griglia di elementi e criteri di valutazione utilizzabili anche nella fattispecie per cui è causa”.
In linea generale, proseguono infatti gli Ermellini, bisogna muoversi proprio dalla considerazione che la danneggiata, pur a fronte della possibilità di essere destinataria di misure di protezione meno severe, quali l’inabilitazione o l’amministrazione di sostegno, era pur sempre interdetta, quindi era risultata affetta da una infermità mentale con i caratteri di cui all’art. 414 cod. civ. “Resta pur sempre il fatto inoppugnabile che la malattia mentale della persona in questione era stata considerata particolarmente grave, tale da comprometterne integralmente le capacità intellettive e volitive e da privarla, in quanto incapace di curare i propri interessi, della capacità legale di agire e di sostituirla nel compimento di qualsiasi atto patrimoniale e della vita civile; in altri termini, deve ritenersi che il giudice che l’aveva dichiarata interdetta lo avesse fatto ritenendo che l’interdizione fosse la misura più idonea alla sua protezione, né può trascurarsi che la condizione giuridica dell’interdetto è modellata su quella del minore, sebbene la minore età e la malattia mentale non siano situazioni equiparabili dal punto di vista naturalistico”.
Questo, dunque, prosegue la Corte è sufficiente per ritenere che la danneggiata fosse meritevole di particolare attenzione, tanto più in forza del fatto che la stessa Corte d’appello aveva dato atto che la patologia mentale di cui era affetta era la oligofrenia, vale a dire “una sindrome caratterizzata da un deficiente sviluppo dell’intelligenza con difficoltà di adattamento alle realtà”.
Ma a far decisamente propendere i giudici del Palazzaccio per l’affermazione di responsabilità della cooperativa sociale, il vero elemento dirimente della causa, è il fatto che il servizio che questa svolgeva, come già ricordato, “non era quello del trasporto di persone tout court, bensì quello di soggetti disabili: vuol dire che era stato predisposto un servizio di trasporto proprio per fare fronte alle esigenze di superamento delle barriere architettoniche, da intendersi come qualunque impedimento per la vita sociale e personale di persone con disabilità”.
Di fronte a questo quadro la Suprema Corte non può non tornare a riconoscere che “la giurisprudenza formatasi in merito al trasporto degli alunni delle scuole muove da una considerazione comune a quella delle persone con disabilità, data dal fatto che anche gli alunni sono considerati privi della sufficiente capacità di autodisciplina per età, inesperienza e naturale esuberanza e che, per tale ragione, necessitano di tutte quelle idonee cautele, che, in concreto, si rendano necessarie per la sicurezza del trasporto e del servizio nel suo complesso, e della commisurazione, nella predisposizione delle misure occorrenti, al limitato affidamento che può ragionevolmente farsi sul grado di prudenza e di disciplina degli scolari, comprendendo l’accompagnamento tramite lo scuolabus anche la responsabilità dell’autista del veicolo tutte le volte che non abbia cura di adottare le ordinarie cautele, suggerite dalla normale prudenza, in relazione alle specifiche circostanze di tempo e di luogo, senza che possano costituire esimenti della responsabilità le eventuali disposizioni date dai genitori, quali quelle di lasciare il minore in un determinato luogo, potenzialmente pregiudizievoli per il pericolo che da esse può derivare all’incolumità dello stesso minore“.
Il dovere di sorveglianza, che doveva essere estesa al massimo, e il principio di affidamento
Insomma, assodato che la danneggiata versava in condizioni di vulnerabilità accertate e note alla cooperativa, è innegabile che, per il fatto che quest’ultima aveva assunto l’obbligo di trasportarla e che si era pertanto instaurata una relazione “con la fonte di pericolo”, era automaticamente sorto “un dovere di sorveglianza a suo carico, da intendersi alla stregua di un munus e di una funzione liberamente accettati e come tali riconoscibili all’esterno, sì da assumere rilevanza erga omnes, giacché il principio di affidamento implica che un soggetto viene a trovarsi nella sfera di custodia e di vigilanza di altro soggetto che sia in grado di seguirne e controllarne le azioni affinché non si verifichino effetti pregiudizievoli“. E perciò, “non poteva non conseguirne la legittima pretesa che la coop sociale tenesse un comportamento “diligente”, da valutare ex art. 1176, 2. comma, cod. civ., norma operante anche in ambito extra contrattuale, in ragione dello statuto dell’attività esercitata”.
Irrilevante che non fossero state disposte sulla danneggiata misure di assistenza specifica
Risulta pertanto evidente, prosegue la Cassazione, che il grado di diligenza e di controllo dovesse essere più intenso proprio in considerazione della vulnerabilità dei fruitori del servizio, in ragione delle loro particolari condizioni soggettive, e ad escluderlo “non bastava, nel caso di specie, il fatto che la condizione della vittima non avesse richiesto l’adozione di misure di assistenza specifica o che la stessa non avesse dato prova di necessitarne: quand’anche ciò possa rilevare, implicherebbe solo il difetto di un obbligo specifico di assistenza speciale a favore di (omissis) ma giammai significherebbe automatico esonero da responsabilità per la cooperativa per il sinistro occorsole, come è stato ritenuto nella sentenza impugnata dalla Corte di merito, la quale infatti dalla mancata assunzione di un obbligo specifico di assistenza ha tratto la errata conseguenza che la cooperativa non avesse nei confronti della danneggiata un obbligo di assistenza a bordo dell’automezzo utilizzato per il trasporto“.
Ergo, “premesso che il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva e che l’evento dannoso è una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire, deve ritenersi che esistesse a carico della cooperativa l’obbligo di tenere la condotta omessa”.
A nulla rileva anche il fatto che l’incidente sia occorso durante la discesa dal pulmino
La Cassazione precisa altresì che a nulla rileva il fatto che la caduta fosse avvenuta a seguito della discesa dal pulmino, “perché l’assunzione dei compiti di trasporto dei minori, così come delle persone con disabilità, deve considerarsi inscindibile dall’assunzione di compiti di assistenza e di vigilanza sulle persone trasportate durante gli intervalli nei quali questi ultimi doveri non siano ad altri rimessi né siano assolvibili negli ambiti delle famiglie o della scuola”.
Ma la Suprema Corte si sofferma anche su un altro errore della Corte di merito, quello cioè di aver ritenuto che l’infortunio fosse accaduto per un mero fatto accidentale (spiegando che l’autista aveva aperto lo sportello per far scendere la passeggera che tuttavia, nel momento in cui aveva appoggiato Il piede a terra, era caduta), “non riconducibile in alcun modo alla circolazione stradale. Ammesso che l’intenzione della Corte territoriale sia stata quella di precisare, una volta esclusa la ricorrenza di un comportamento omissivo da parte della cooperativa, che l’evento di danno era stato determinato dal caso fortuito, la statuizione è errata”. L’evento fortuito, infatti, proseguono i giudici del Palazzaccio, libera da responsabilità “solo se si accerti in concreto che esso era imprevedibile ed inevitabile”; la Corte territoriale avrebbe, in altri termini, dovuto accertare se la cooperativa sociale addetta al trasporto “avrebbe potuto con la diligenza esigibile prevedere quanto poi in effetti accaduto e se avrebbe potuto concretamente adottare condotte diverse, e salvifiche, rispetto a quella concretamente tenuta nella specie”: accertamento che nel caso di specie è del tutto mancato.
Errato anche parlare di “fortuito” senza accertare se quel fatto fosse prevedibile ed evitabile
“La Corte d’Appello, infatti – osservano gli Ermellini – non ha affatto verificato in concreto la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento dannoso, essendosi limitata a postulare in astratto che la caduta della vittima non fosse prevedibile né evitabile; pertanto, avendo ritenuto ricorrente l’efficacia esimente del caso fortuito, senza accertare in facto se quel caso fortuito fosse prevedibile od evitabile, essa si rivela erronea anche sotto tale profilo”.
Infine, la Cassazione chiama in causa anche l’Asl perché la responsabilità della cooperativa non esclude il rilievo, ai sensi degli artt. 1228 e 2049 cod. civ., di quella dell’azienda sanitaria che ad essa aveva affidato il servizio di trasporto dei disabili: “la coop sociale, infatti, ha assunto nella vicenda per cui è causa il ruolo di preposto/ausiliario nell’adempimento della prestazione cui era tenuta ex lege nei confronti della danneggiata; l’esternalizzazione dell’attività di trasporto dei disabili, cioè la possibilità che essa sia resa anziché dall’ente pubblico da organizzazioni privatistiche, si ispira al principio della sussidiarietà. Gli enti collettivi privati che perseguano fini di carattere generale sono elementi di una nozione ampia di organizzazione pubblica, per cui la loro attività concorre con quella pubblica alla prestazione di servizi di interesse generale, dando attuazione ai principi di solidarietà e partecipazione, sicché, in applicazione del principio cuius commoda eius et incommoda, ovvero dell’appropriazione o “avvilimento” dell’attività altrui per l‘adempimento della propria obbligazione, deve ritenersi che l’azienda sanitaria avesse assunto il rischio per i danni risentiti dal terzo o dal creditore della prestazione cagionati dalla coop sociale e che, in applicazione del principio, di conio giurisprudenziale, della mera occasionalità necessaria tra esecuzione della prestazione e danno, tra cui sussista un collegamento obiettivo, dovesse rispondere dei danni cagionati dal preposto/ausiliario”.
La sentenza è stata pertanto cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione.