Incidente a paziente in casa di riposo: chi è responsabile?
Sulla scorta del cosiddetto contratto di spedalità, la casa di riposo deve garantire all’ospite tutta l’assistenza socio sanitaria di cui ha bisogno e la tutela della sua incolumità e, in caso di incidenti, purtroppo tutt’altro che infrequenti, le figure che ricoprono posizioni di garanzia nella struttura ne devono rispondere penalmente.
A ribadire con forza questi principi la Cassazione, con la sentenza n. 42032/22 depositata l’8 novembre 2022, con la quale la Suprema Corte ha definitivamente deliberato su un caso tragico.
Due condanne per omicidio colposo per la caduta fatale dell’ospite di una casa di riposo
La Corte d’Appello di Genova, in parziale riforma della sentenza del Tribunale cittadino limitata solo all’entità della pena, che era stata rideterminata, aveva ritenuto colpevoli del reato di omicidio colposo i legali rappresentanti della società di gestione (la Ca.Gi srl) della Residenza Sanitaria Assistita San Tomaso d’Aquino e della cooperativa Villa Perla di Genova assegnataria del servizio di continuità assistenziale, dell‘emergenza, della sicurezza e delle cure dei pazienti all’interno della struttura, reato commesso il primo novembre 2015 ai danni di un paziente della Rsa incapace di provvedere a se stesso per malattia fisica e mentale, verso il quale in capo ai titolari delle due società gravavano gli obblighi di ospitalità, assistenza, cura e vigilanza in forza di contratto sottoscritto dal coniuge della vittima nel giugno del 2014.
In particolare, si contestava agli imputati di avere lasciato senza presidio il piano ove si trovava l’ospite, persona non autosufficiente e quindi soggetta a sorveglianza, impiegando un numero di operatori socio-assistenziali inadeguato alle esigenze e alla logistica della struttura (l’immobile era dislocato su tre piani) e alle condizioni psicofisiche dei pazienti e, in ogni caso, insufficiente ad assisterli e a vigilarli omettendo di emanare direttive e ordini per disciplinare l’accompagnamento e l’afflusso degli ospiti in sala da pranzo e per avere omesso di vigilare sullo svolgimento del servizio e, in particolare, per non avere previsto, quantomeno nelle aree comuni e nei corridoi, sistemi di videosorveglianza atti a integrare l’attività di vigilanza approntata dagli operatori.
In conseguenza di tali carenze, il giorno dei fatti, tra le 10.30 e le 10.45 e, comunque, dopo che le due operatrici in servizio si erano allontanate per accompagnare altri ospiti al piano terra, il paziente, utilizzando una sedia a rotelle ad auto-spinta, era uscito dalla sua camera, posta al secondo piano, accedendo alla porta antincendio del pianerottolo e precipitando dalle scale, procurandosi lesioni gravissime a causa delle quali sarebbe poi deceduto dopo tre settimane di agonia, il 23 novembre 2015.
Il ricorso per Cassazione del titolare della società di gestione della Rsa
I due imputati hanno quindi proposto distinti ricorsi per Cassazione. Il titolare della società di gestione, pur non mettendo in discussione la sua posizione di garanzia, asseriva di aver dimostrato di aver assolto correttamente ai suoi obblighi, provvedendo all’installazione di cancelletti, prevedendo sistemi anti fuga, porte perimetrali, gruppi di continuità per gli impianti ascensori, e aggiungeva che non si erano mai palesate criticità sulla sicurezza dei pazienti. Gli specifici addebiti, secondo la sua difesa, sarebbero stati da attribuire ad altre figure di garanzia, tra cui i sanitari che, nel piano terapeutico dove si trovava il degente, avevano ritenuto che questi potesse muoversi in maniera autonoma servendosi di una sedia a rotelle, essendo previsto nel contratto di ospitalità che le condizioni fisiche e mentali dell’ospite fossero valutate dalla direzione sanitaria.
Il titolare della cooperativa a cui erano affidati i servizi socio sanitari della struttura, da parte sua, tramite i suoi avvocati, ha ovviamente fatto lo stesso rigettando le responsabilità sull’altro imputato e sostenendo che i giudici d’appello non avrebbero argomentato in ordine alla necessità di un maggior numero di operatori e neppure alla misura di tale incremento o in ordine a quali fossero le prescrizioni diverse rispetto a quelle ricevute dal personale: a lui non si sarebbe potuto ascrivere nulla in conseguenza del contratto di appalto, riferibile solo legale rappresentante della società di gestione della Rsa, dato che il suo compito era limitato alla parte inerente al servizio delle operatrici socio sanitarie.
L’imputato, sempre con riferimento alla sua ritenuta posizione di garante, asseriva inoltre di aver assolto ai suoi obblighi mediante l’accertamento che all’interno della struttura vi fosse una organizzazione gerarchica di figure professionalmente competenti ai fini della sicurezza degli ospiti, tenute a segnalare eventuali deficienze del servizio, sottolineando anche come il direttore sanitario, mai indagato, fosse l’unico deputato a redigere la scheda del paziente, ossia il documento contenente la valutazione del suo stato, ivi comprese le eventuali, residue autonomie e gli obiettivi da perseguire sul paziente, nella specie essendo stato riconosciuto che la vittima si muoveva senza limiti all’interno della struttura. Inoltre, rilevava anche che le due operatrici al piano erano state assolte già in primo grado e la coordinatrice in secondo, con la conseguenza che, a suo dire, sarebbe stato contraddittorio ritenere responsabile il loro datore di lavoro per non avere prestato un adeguato presidio.
Quanto poi all’accusa di non aver predisposto adeguatamente i turni e le dislocazioni degli operatori e di non aver previsto la presenza di un operatore in prossimità del pianerottolo, l’imputato obiettava che nessun rilievo gli era mai stato mosso in tal senso dagli organi di controllo (Asl e Nas), non competendo alcunché quanto al personale infermieristico e medico.
Ancora, aveva notato come la vittima fosse un “paziente anomalo”, data l’età ancora giovane e la vitalità di cui ancora godeva, ma che nessuna segnalazione gli era mai pervenuta circa la sua sicurezza. Cosicché, anche in relazione al doveroso giudizio contro-fattuale, nella specie, la “catena di comando” era stata da lui osservata nei limiti delle sue competenze, e non gli si sarebbe potuto contestare di non aver esercitato un’ingerenza nei confronti di altre figure di garanzia, quale il direttore sanitario, soggetto scelto dalla proprietà e approvato dall’Asl.
Quanto, poi, al cancelletto, uno dei punti centrali del processo, esso, secondo l’imputato, costituiva una misura aggiuntiva voluta dal legale rappresentante della società di gestione della Rsa, e non riferibile a lui, che aveva assunto degli obblighi di garanzia che prevedevano solo la assistenza e la sorveglianza degli ospiti, ma solo avuto riguardo all’operato del proprio personale e non con riferimento alle misure di tipo strutturale. In punto di ricostruzione fattuale, poi, egli contestava il ragionamento probatorio dei giudici d’appello, in base al quale il cancelletto, nell’occasione, sarebbe rimasto aperto e le operatrici ne sarebbero state consapevoli avendo da poco utilizzato l’ascensore, la cui porta si apriva solo a cancelletto aperto o completamente chiuso, e il paziente, secondo quanto emerso dall’inchiesta, non avrebbe potuto aprire il cancelletto con le mani, che in quel periodo erano chiuse a pugno in ragione della sua patologia. Il primo elemento, secondo la difesa dell’imputato, sarebbe rimasto in realtà incerto, il secondo contraddetto dal fatto che l’ospite poteva spingere da solo la carrozzina.
Infine, l’imputato deduceva violazione e/o erronea interpretazione della legge penale, quanto all’art. 113, cod. pen. (il concorso colposo), il cui campo di applicazione è quello della responsabilità sanitaria, oltre il quale i singoli garanti non avrebbero la possibilità di conoscere e percepire la portata dell’altrui negligenza o anche solo ipotizzarla. I giudici d’appello, al contrario, avrebbero dato per scontato che egli conoscesse la situazione di pericolo, nonostante non si facesse alcun cenno alla circostanza che egli sapesse o avesse avuto anche solo il sentore che il paziente si trovasse in una situazione di rischio.
La Suprema Corte rigetta tutte le doglianze: la gestione degli ospiti era “affidata al caso”
Ma per la Suprema Corte entrambi i ricorsi sono inammissibili. Quanto alla ricostruzione in fatto, gli Ermellini premettono che il Tribunale, nella sentenza appellata, aveva ritenuto che la materiale gestione degli ospiti della Rsa, nonostante l’impegno degli operatori, non era stata procedimentalizzata, né organizzata, ma di fatto “demandata al caso, nella “speranza” che tutto andasse per il meglio”. Il decesso del paziente, infatti, non era stato conseguenza di mancanze di carattere assistenziale, quanto piuttosto di una mancata vigilanza del paziente, ingenerata dalle riscontrate carenze organizzative. Quanto al servizio di assistenza, esso, come si è detto, era stato appaltato da CA.GI s.r.l. alla Cress, la quale, a sua volta, lo aveva sub appaltato a Villa Perla e su base contrattuale era previsto l’obbligo di quest’ultima di garantire la sicurezza dei pazienti.
I piani della struttura non erano presidiati di continuo
La Corte d’appello aveva ritenuto pacificamente ricostruiti i fatti rilevanti, affrontando il merito del gravame quanto alla valutazione del loro significato. La responsabilità dei due imputati (unitamente a quella della responsabile del servizio di assistenza, poi assolta dai giudici di appello per impossibilità di stabilirne gli obblighi specifici e di ritenere provata la circostanza che non avesse impartito disposizioni per il continuo presidio dei piani di degenza) era stata ritenuta muovendo dalla considerazione che, pur non esistendo una direttiva scritta che imponesse alle operatrici e/o al personale paramedico di presidiare continuamente i piani di degenza, tuttavia, la prova orale aveva consentito di accertare che tale indicazione esisteva ed era nota agli operatori, tanto che, dopo i fatti, era stata data precisa disposizione di non lasciare i piani senza controllo.
Il paziente non poteva da solo aprire il cancelletto delle scale da cui è caduto, lasciato aperto
I giudici territoriali avevano rigettato l’assunto della difesa del legale rappresentante di Villa Perla, secondo il quale il cancelletto che adduceva alle scale, teatro dell’evento, poteva essere aperto dal paziente, rilevando come fosse rimasto provato, al contrario, che costui in quel periodo avesse le mani chiuse a pugno, ciò che ne limitava grandemente la manualità, consentendogli solo di spingersi sulla sedia, ma non di compiere un’azione più complessa come l’apertura del chiavistello, peraltro apposto sul lato prospiciente le scale e non verso il pianerottolo.
Inoltre, era stato provato che la vittima era l’unico ospite della Rsa che, pur non essendo autosufficiente, godeva di una certa libertà di movimento (poteva spostarsi di piano con un montacarichi), anche grazie al presidio del quale aveva la disponibilità (una sedia a rotelle con auto-spinta). I giudici avevano ricostruito le condizioni del luogo dell’incidente, dando conto del fatto che la superficie del pianerottolo era molto ridotta e che, probabilmente, la vittima vi era giunta di slancio, non riuscendo a bloccare il mezzo, rovinando giù per le scale a causa dell’assenza della barriera costituita dal cancelletto chiuso. Inoltre, sempre in punto ricostruzione dei fatti, la Corte d’appello aveva affermato che la libertà dell’ospite non dipendeva dall’insufficienza del controllo su tale paziente, rispondendo piuttosto a una decisione terapeutica, affinché gli fosse garantito un minimo di autonomia, data la giovane età e le discrete condizioni fisiche; la pericolosità del pianerottolo, infine, era un dato prevedibile, essendo risultato dalle prove orali che il relativo cancelletto era lasciato a volte aperto.
Fatte tali premesse in punto di fatto, la Corte d’appello aveva precisato che, anche a voler ammettere che esistesse una disposizione consuetudinaria intesa al presidio costante dei piani di degenza, la mancanza di espresse disposizioni scritte, portate a conoscenza di tutti gli operatori, e di direttive volte ad assicurarsi che tutti i cancelletti di accesso alle scale fossero chiusi, integrava una condotta gravemente imprudente e negligente, tenuto anche conto della particolare collocazione del cancelletto incriminato, la cui chiusura era posta sul lato prospiciente le scale.
Omesse le attività di controllo previste nel contratto dei servizi assistenziali
Anche a voler ritenere la inconciliabilità delle caratteristiche di sicurezza, in relazione alle due distinte esigenze (quella di sicurezza dello stabile per agevolare l’esodo di emergenza, facendo in modo che il cancelletto si aprisse a spinta e nel senso delle scale, e quella della sicurezza del paziente al quale, per piano terapeutico, era assicurata una certa libertà di movimento), la Corte territoriale ha rilevato come, al momento dei fatti, il presidio non assicurasse né l’una, né l’altra. Da un lato, infatti, era emerso che non poteva riporsi sulle scelte del paziente alcun affidamento: egli si muoveva all’interno della struttura, passando da un piano all’altro, senza alcun motivo, senza neppur avere consapevolezza del luogo in cui si trovava, cosicché non poteva ritenersi che si astenesse dall’andare su quel pianerottolo; prevedere che un operatore presidiasse sempre il piano, con particolare riferimento al pianerottolo, luogo risultato pericoloso per i motivi sopra richiamati, non era prescrizione “ridondante” o eccessivamente onerosa, ma diretta attuazione dell’obbligo previsto nel contratto di “affidamento in carico capo commessa” sottoscritto tra Cress e Villa Perla, assegnataria del servizio, alla quale incombeva contrattualmente di provvedere alla continuità assistenziale, all’emergenza e alla sicurezza dei pazienti e delle cure.
Si trattava, dunque, dell’appalto di compiti di evidente ampiezza, ai quali il titolare della cooperativa non aveva dato completa attuazione, pur godendo di autonomia gestionale e di spesa. All’imputato, in sostanza, incombeva stabilire quanti operatori dovessero essere presenti nelle diverse fasce orarie e quali misure fossero necessarie per la sicurezza degli ospiti: bisogni di sicurezza che, nel caso della vittima, non potevano non contemplare la sua particolare situazione del paziente, essendo peraltro ricoverato nella struttura da circa un anno e mezzo.
E violato anche il contratto di ospitalità con i familiari del degente deceduto
Quanto, invece, alla posizione del legale rappresentante della proprietà, è vero che l’appalto dei servizi di assistenza alla persona era ampio, ma il contratto di ospitalità tra il paziente e la società titolare della RSA era stato sottoscritto dalla moglie del paziente e, appunto, il legale rappresentante di quest’ultima, il quale, peraltro, si recava spesso presso la struttura ed era a conoscenza della speciale condizione del degente e della sua libertà di movimento all’interno di essa.
Pertanto, nel momento in cui questi aveva affidato l’appalto alla società dell’altro imputato, o più precisamente, con successivo subappalto, ciò non comportava l’esonero del committente dall’obbligo di verifica sul corretto svolgimento del servizio appaltato, in base alle norme civilistiche di riferimento, tenuto conto della peculiare condizione della vittima che aveva reso necessario prevedere, ed esigere e verificare un presidio costante di un operatore al secondo piano mentre il degente si trovava sulla sedia ad auto-spinta.
In via conclusiva, il giudice aveva ritenuto nella condotta di entrambi i ricorrenti profili di negligenza e imprudenza, consistiti nel non avere adottato misure (chiusura automatica del cancelletto e sua facile apertura nel senso dell’esodo; presenza di un operatore al piano, in prossimità del pianerottolo), conformate alla peculiare situazione del paziente, onde garantirne la sicurezza e scongiurare, in particolare, eventi del tipo di quello verificatosi.
Le abitudini del paziente erano ben note, l’incidente non era stato imprevedibile
Aveva, infine, superato le osservazioni difensive, secondo le quali i due imputati erano sì a conoscenza della situazione peculiare dell’ospite, ma non avevano mai ricevuto segnalazioni riguardanti l’esistenza di pericoli, cosicché non poteva da essi esigersi di governare il rischio di una caduta dalle scale. Al contrario, erano proprio le due posizioni ricoperte a imporre ai due imputati di valutare l’esistenza di pericoli per la incolumità della vittima e predisporre le cautele necessarie. Infatti, il frangente nel quale l’evento si era verificato non era dipeso dalla introduzione di un rischio eccentrico (una condotta della vittima che potesse ritenersi, cioè, imprevedibile, siccome mai riscontrata), essendo al contrario i suoi movimenti un dato conosciuto e consentito sin dal suo ingresso in struttura.
Dopo aver ripercorso le argomentazioni della Corte territoriali, gli Ermellini passano quindi alla disamina dei motivi di ricorso, rilevando come l’intera impalcatura difensiva si fondi, per entrambi gli imputati, sul presupposto che i giudici abbiano travisato il contenuto dei loro rispettivi obblighi, quali soggetti certamente titolari di una posizione di garanzia, intesa come posizione di chi ha il compito di gestire un determinato rischio.
Ma prima di valutare gli obblighi incombenti sugli imputati e la situazione di rischio che erano tenuti a gestire, la Suprema Corte procede alla valutazione della natura del rapporto esistente tra gli stessi e la vittima e della situazione fattuale sottostante, posto che “la posizione di garanzia – che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante – deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere-dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro”.
La Cassazione censura lo “scaricabarile” tra i due imputati, entrambi responsabili
Ebbene, secondo i giudici del Palazzaccio la inammissibilità del ricorso del legale rappresentante della società di gestione della Rsa discende dalla “manifesta infondatezza di entrambi i motivi (…) Quanto al secondo, in particolare, essa deriva dalla generica contestazione della situazione di rischio che l’imputato era chiamato a gestire: la difesa ritiene, in spregio ai principi di diritto invalsi nella giurisprudenza costante di legittimità, che il solo fatto di avere appaltato l’assistenza dei residenti nella Rsa esonerasse per ciò solo l’appaltante dalla verifica della gestione da parte del sub appaltatore e, soprattutto, che la speciale condizione dell’ospite dipendesse da una valutazione del direttore sanitario e dal piano terapeutico approntato per quel particolare paziente”. In questo modo, sottolineano gli Ermellini, la difesa ha del tutto omesso di considerare che” la situazione di rischio la cui inadeguata gestione è stata ascritta all’imputato era connotata proprio dalle condizioni specifiche di quel degente, condizioni perfettamente note allo stesso imputato che aveva sottoscritto il relativo contratto di ospitalità quasi un anno e mezzo prima degli eventi”.
Ma per la Cassazione anche il ricorso del legale rappresentante della cooperativa a cui erano affidati i servizi della residenza sanitaria è inammissibile per manifesta infondatezza di tutti i motivi. Tra i vari punti, i giudici del Palazzaccio confutano le obiezioni della difesa laddove aveva ritenuto non configurabile in capo al gestore del servizio di assistenza ai residenti della Rsa in questione uno specifico obbligo riguardante l’organizzazione dei servizi stessi (con presidio continuo dei piani) e una specifica gestione dello specifico rischio di caduta correlato alle condizioni del paziente e dei luoghi (pianerottolo con cancello sovente aperto).
“Trattasi, al contrario, di obblighi che, in base alle risultanze probatorie, costituivano il contenuto specifico del servizio sub appaltato, dai quali il soggetto preposto alla gestione del relativo rischio (quello, peraltro, attualizzatosi in conseguenza della violazione delle regole di cautela individuate dai giudici del doppio grado) non può chiamarsi fuori semplicemente rinviando ad altre eventuali posizioni di garanzia (nella specie, attribuendo alla direzione sanitaria la mancata gestione del rischio di caduta dalle scale di un paziente, per il sol fatto di avergli consentito di muoversi liberamente con una sedia a rotelle ad auto-spinta)” ribadiscono con forza gli Ermellini, aggiungendo che l’argomento rileva la sua “fallacia, laddove non tiene conto delle precisazioni contenute nelle sentenze di merito, conformi quanto alla ricostruzione della posizione dell’imputato, al quale era deputato di occuparsi, tramite l’organizzazione del relativo servizio, della assistenza e della sicurezza dei residenti”.
Quanto poi al “paziente particolare”, il suo bisogno di sicurezza, per come precisato dai giudici territoriali, “non poteva che calibrarsi sulle specifiche condizioni di salute e sulle abitudini di vita, tenuto conto della logistica e della conformazione dei luoghi, il tutto dettagliatamente esposto nelle sentenze di merito. Nel contestare la ricostruzione fattuale operata nei giudizi di merito, poi, la difesa ha offerto una lettura alternativa dei fatti che ha consentito ai giudici del merito, con un ragionamento del tutto logico e scevro da contraddizioni, di affermare che il cancelletto era spesso aperto e che il degente non avrebbe potuto aprirlo da solo, rendendo una ragionevole spiegazione della dinamica dell’accaduto”. Alla fine, quindi, condanna confermata per entrambi gli imputati.