Incidente causato da mezzi della nettezza urbana

L’investimento del pedone da parte di un mezzo della nettezza urbana è un mero incidente stradale o l’evento di configura anche come infortunio sul lavoro? E, se sì, i legali rappresentanti della società che ha in gestione il servizio di raccolta dei rifiuti sono penalmente responsabili?

E una sentenza di assoluto interesse, e che peraltro farà discutere, quella, la n. 41748/22, depositata il 23 agosto 2022 dalla Cassazione, che si è occupata di una tipologia di sinistro tutt’altro che rara se è vero che nel 2020 sono state ben cinque le persone a piedi travolte e uccise da autocompattatori in manovra. 

 

Un pedone travolto e ucciso da un autocompattatore dei rifiuti

Anche il caso specifico, accaduto il 21 marzo 2010 in provincia di Alessandria, è tragico. Un dipendente della AMV-Igiene Ambientale s.r.l., con mansioni per l’appunto di autista di autocompattatore, immessosi nell’area privata del caseggiato dove abitava la donna investita, e raccolti i rifiuti dai cassonetti, non potendo effettuare manovra di svolta per ritornare sulla via pubblica, a causa delle dimensioni del mezzo (larghezza complessiva 2,43 metri, lunghezza 9,35), e della ristrettezza del tratto di carreggiata utile, pari a 6,65 metri, aveva proceduto in retromarcia, alla velocità di 5-8 km/h, avvalendosi degli specchietti retrovisori e della telecamera posta sul lato posteriore in cima al cassone del carico, quando, nonostante l’uso del lampeggiante e del segnalatore acustico intermittente, aveva travolto il pedone che, con le spalle rivolte al veicolo, stava passando per raggiungere i cassonetti e i gettare i rifiuti, essendosi essa trovata in un cosiddetto “cono d’ombra” non visibile dalla cabina e fuori dal raggio visivo della telecamera. In particolare, nel momento in cui il conducente aveva iniziato la manovra, la vittima si trovava alla distanza di 14,6 metri dal lato posteriore dell’autocompattatore, mentre la telecamera, in bianco e nero, aveva un raggio di azione di 8 metri, consentendo tuttavia la visione di un’intera sagoma umana solo alla distanza di 4-5 metri, e con immagini, comunque, non definite a causa della loro bassa qualità. 

 

I giudici territoriali ritengono applicabile la normativa antinfortunistica

La particolarità del caso sta nel fatto che i giudici territoriali, sia il Tribunale di Alessandria, sia, con sentenza emessa nel 2019, la Corte d’Appello di Torino, avevano ritenuto applicabile al caso di specie la normativa antinfortunistica, di cui al d. Igs. n. 81/2008, sostenendo che il luogo dov’era avvenuto il sinistro doveva considerarsi “luogo di lavoro” e che le disposizioni rivolte alla tutela dei lavoratori dovevano estendersi all‘incolumità dei terzi presenti sul luogo di lavoro, ed avevano altresì concluso che, a fronte del nesso di causalità fra la violazione di norme di prevenzione e il sinistro occorso al terzo, doveva ritenersi sussistente la penale responsabile del soggetto che riveste la posizione di gestore del rischio. 

Di qui la condanna del legale rappresentante della società, del responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione e di un preposto con funzioni di capo servizio, ritenuti responsabili del reato di cui all’art 589, commi 1 e 2 (ossia omicidio colposo con l’aggravante di essere stato commesso in violazione delle norme antinfortunistiche), per avere il primo e il secondo, in violazione dell’art. 18, comma 1^ lett. q) d. Igs. 81/2008, ed il terzo in violazione dell’art. 19 comma 1, lett.re d) ed o) d. Igs. 81/2008, cagionato la morte della donna travolta dall’autocompattatore condotto da un dipendente dell’azienda. 

Più precisamente, i giudici avevano individuato le violazioni decisive per il verificarsi dell’evento nella mancata previsione nel Dvr, il Documento di Valutazione dei Rischi, di misure atte a prevedere danni alle persone che venissero a trovarsi nel raggio di azione dei mezzi, essendo previste misure – peraltro gravemente generiche e lacunose (“fare attenzione” e “farsi coadiuvare da una terza persona”) – solo per evitare l’impatto contro le cose; nella mancata esecuzione di sopralluoghi nei luoghi dove si procedeva alla raccolta per la compilazione delle schede di indagini e valutazione dei rischi; nel non avere munito il mezzo di dispositivi idonei a consentire al conducente di esplorare in modo completo la manovra di retromarcia; nel non avere previsto l’ausilio di un secondo operatore per consentire al conducente di effettuare le manovre in sicurezza.

Infine, la Corte aveva escluso che il comportamento della vittima, consistito nel camminare, al centro della strada, dietro il mezzo compattatore e voltando le spalle allo stesso, e la sua comprovata incapacità di udire il segnalatore acustico – a causa della sordità che la affliggeva – e probabilmente anche di vedere adeguatamente, per problemi di vista, costituisse evento interruttivo nel nesso causale fra la condotta degli imputati e il tragico decesso. 

 

Gli imputati puntano molto sul fatto che il mezzo era conforme alle direttive e omologato dal Ministero

Gli imputati hanno quindi presentato ricorso per Cassazione lamentando il fatto che dal percorso argomentativo della Corte territoriale non si sarebbe ricavato con certezza che essi fossero a conoscenza dell’asserita deficienza del mezzo, che la valutazione dei rischi fosse effettivamente lacunosa e che la vittima stesse tenendo un comportamento normale. Secondo la tesi difensiva, sarebbe stato indispensabile l’accertamento degli elementi da cui ricavare la conoscenza o la conoscibilità da parte loro della carenza tecnica dell’autocompattatore, ed in particolare della telecamera e del cosiddetto “cono d’ombra non esplorabile”, e degli elementi che consentissero di affermare che si potesse prevedere l’irregolare condotta della vittima, con giudizio ex ante. 

I ricorrenti hanno poi sottolineato come, secondo il consulente tecnico del Pubblico ministero, l’esecuzione della manovra da parte del dipendente alla guida del veicolo fosse stata impeccabile, avendo egli utilizzato tanto gli specchietti, che la telecamera, mentre la persona offesa camminava al centro della strada, voltando le spalle al mezzo, pur avendolo probabilmente visto.

Ma, soprattutto, essi hanno battuto sul fatto che, com’era stato provato, il veicolo compattatore, di tipo monoperatore e a caricamento laterale, era conforme alla Direttiva Macchine, era stato omologato dal Ministero dei Trasporti ed era stato periodicamente e positivamente revisionato, in quanto dotato di tutti gli ausili e dispositivi di sicurezza, ossia degli specchietti retrovisori e della relativa telecamera ubicata nella parte posteriore del cassone, del lampeggiante arancione strombo-attivo e del segnalatore acustico, regolarmente attivati dalla stessa manovra di retromarcia e risultati perfettamente funzionanti, al momento del sinistro.

La società AMV, hanno chiarito gli imputati, aveva acquistato l’autocompattatore monoperatore, utilizzandolo con il “conducente come operatore unico”, proprio per limitare al minimo il numero dei lavoratori esposti al rischio, la valutazione dei rischi era correttamente avvenuta, istruendo gli operatori sui rischi derivanti dalla circolazione stradale, e l’attrezzatura era omologata, conforme alla normativa e tenuta in piena efficienza anche al fine di non causare rischi per la popolazione, ai sensi dell’art. 18, comma 1 lett. q) d. Igs. 81/2008. 

In definitiva, gli imputati hanno asserito con forza di non essere venuti meno al loro dovere di diligenza, assolvendo all’obbligo di adottare gli strumenti più moderni che la tecnologia offriva, e hanno citato anche la giurisprudenza di legittimità laddove essa escluderebbe la possibilità di far ricadere sul datore di lavoro la responsabilità nell’ipotesi in cui una macchina presenti un elemento di pericolo inerente la sua fabbricazione o progettazione non suscettibile di essere apprezzato con l’ordinaria diligenza. 

Nel caso di specie, l’autocompattatore era, secondo il fabbricante ed il progettista, conforme ai requisiti di sicurezza, né gli enti di controllo avevano eccepito nulla circa lo stato di conservazione e sicurezza, il che sarebbe stato più che sufficiente a giustificare il legittimo affidamento da parte loro sulla sua piena sicurezza anche in ordine alla possibilità di causare rischi per la popolazione.

 

Contestato anche un concorso di colpa da parte del pedone

Infine hanno sviluppato la questione, che sarebbe stata trascurata dai giudici territoriali, relativa alla prevedibilità, da parte degli imputati, del comportamento della persona offesa. E al riguardo hanno osservato che, se la sentenza escludeva qualsiasi irregolarità del comportamento del pedone che, secondo il giudice di secondo grado, camminava del tutto legittimamente nel cortile anteriore alla propria abitazione, il consulente del PM ne aveva invece definito la condotta  “non del tutto prudenziale”, dato che, per gettare i rifiuti nel cassonetto, anziché completare l’attraversamento della strada, l’aveva percorreva longitudinalmente, violando l’art. 190 commi 1, 2 e 5 C.d.S.. 

Peraltro, come già ricordato, i ricorrenti hanno rilevato come l’anziana fosse affetta da ipoacusia profonda, non emendata nell’occasione dall’utilizzo dell’apparecchio acustico, nonché da leucomi corneali, non potendo così né vedere chiaramente, né sentire il segnalatore acustico, attivatosi con la manovra di retromarcia. 

Secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe dato una lettura del Codice della Strada tale da implicare che il datore di lavoro debba prevedere e governare il rischio da attività illecita altrui, ignorando il principio dell’affidamento e finendo per affermare che egli non solo debba assicurare il rispetto delle norme sulla circolazione stradale ma anche da parte del terzo pedone, esigendo il rispetto delle regole del Codice della strada, pena l’imputazione del reato contestato. Dunque, a fronte della corretta manovra effettuata dall’autista, della piena efficienza dell’autocompattatore e delle sue dotazioni, che giustificavano il legittimo affidamento degli imputati, i ricorrenti concludono che è plausibile sostenere che se la vittima non fosse stata affetta da sordità o avesse utilizzato l’apparecchio acustico, comunque non violando l’art. 190 C.d.S., il tragico evento non si sarebbe verificato, essendosi, invece, realizzato per la sua condotta imprevedibile, attuata in modo rapido ed inatteso. Il comportamento della persona offesa si sarebbe posto, pertanto, come vera e propria causa imprevista ed imprevedibile, idonea da sola a produrre l’evento. 

 

L’estensibilità anche a terzi degli obblighi per la tutela della salute dei lavoratori

Ebbene, secondo la Suprema Corte il primo motivo di ricorso è fondato. Gli Ermellini entrano subito nelle due questioni poste dalla doglianza, la prima riguardante la riconducibilità del rischio realizzatosi al novero dei rischi derivanti dallo svolgimento di attività lavorative, con conseguente applicazione delle disposizioni di cui al d. Igs. 81/2008, la violazione contestata agli imputati; la seconda attinente alla alla prevedibilità del fatto, avuto riguardo alla conformità del mezzo utilizzato alla Direttiva macchine, essendo l’autocompattatore stato omologato quale “monoperatore”, e mantenuto in stato di piena efficienza.

La sentenza, impugnata, rileva la Cassazione, riprendendo gli argomenti spesi dal primo giudice, muoveva dalla considerazione che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la normativa antinfortunistica è rivolta non solo alle esigenze di tutela della salute dei lavoratori, ma anche alla necessità di garantire l’incolumità dei terzi che si trovino sui luoghi di lavoro e possano essere esposti a rischi derivanti dall’attività lavorativa.

Su questa base, ritenuto che ogni area stradale o privata di raccolta dei rifiuti debba intendersi luogo di lavoro, trattandosi di operazioni che non possono che svolgersi all’esterno del complesso aziendale, la Corte territoriale ascrive agli imputati di non avere adottato provvedimenti adeguati ad evitare che la raccolta di rifiuti con l’autocompattatore cagionasse rischi e pericoli per la salute della popolazione, verificando le aree e le manovre dei mezzi necessarie a provvedere al ritiro dai cassonetti, così prevenendo il rischio connesso all’attività aziendale” ripercorre la vicenda giudiziaria la Cassazione: più nel dettaglio, al responsabile del Servizio Prevenzione e protezione era stato ascritto di non avere compiuto sopralluoghi sulle aree interessate dalla raccolta e le manovre necessarie per effettuarla; al preposto, di non avere informato il dipendente conducente dell’automezzo delle condizioni di pericolo derivanti dalla manovra di retromarcia, ricollegabili ad un deficit di visibilità della zona retrostante il mezzo.

La Suprema Corte parte quindi dal presupposto su cui la Corte territoriale ha articolato il proprio ragionamento, ovverosia l’estensibilità ai soggetti estranei all’organizzazione dell’impresa degli obblighi di previsione dei rischi e di cautela imposti dal d.lgs. 81/2008 per la salute dei lavoratori, “considerando come ciò si riverberi sul caso in esame, verificando cioè se il rischio concretizzatosi effettivamente inerisca agli obblighi del datore di lavoro, oppure costituisca la realizzazione di altro tipo di rischio che esula dai suoi doveri”.

 

L’evento deve aver concretizzato il rischio che la regola cautelare violata mirava a prevenire

E qui i giudici del Palazzaccio ricordano come la Cassazione abbia “storicamente” affermato che “la portata delle norme antinfortunistiche dettate a tutela dei lavoratori si estende anche ai terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, allorquando le lesioni o l‘omicidio colposo dei medesimi derivino dalla loro violazione e sussista un legame causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento. Più recentemente è stato precisato che ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante del fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, occorre che l’evento realizzatosi concretizzi il rischio che la regola cautelare violata mirava a prevenire, con la conseguenza che ove la persona offesa dal reato non sia un lavoratore ma un terzo, la circostanza è ravvisabile solo se la regola prevenzionistica sia dettata a tutela di qualsiasi soggetto che entri in contatto con la fonte di pericolo sulla quale il datore di lavoro ha poteri di gestione e non anche quando tale regola sia posta a beneficio precipuo del lavoratore”. 

In applicazione di tale principio, ricorda la Cassazione, la Corte aveva ritenuto immune da censure la sentenza che aveva escluso la circostanza aggravante in questione in relazione all’infortunio occorso a un vigile del fuoco durante un intervento volto a domare un incendio di sterpaglie, perché folgorato da un conduttore della linea elettrica sganciatosi da un palo, in conseguenza dell’omessa manutenzione della linea stessa.

E’ ben possibile che nell’evento sia concretizzato il rischio lavorativo anche se avvenuto in danno del terzo, ma ciò richiede che questi si sia trovato esposto a tale rischio alla stessa stregua del lavoratore – fissa il primo paletto la Suprema Corte – Per tale motivo in positivo, vengono richieste condizioni quali la presenza non occasionale sul luogo di lavoro o un contatto più o meno diretto e ravvicinato con la fonte di pericolo; e, in negativo, che non deve avere esplicato i suoi effetti un rischio diverso, da ciò ricavandosi il generale principio secondo cui, ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante del “fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”, è necessario che venga violata una regola cautelare volta a eliminare o ridurre lo specifico rischio, derivante dallo svolgimento di attività lavorativa, di morte o lesioni in danno dei lavoratori o di terzi esposti alla medesima situazione di rischio e pertanto assimilabili ai lavoratori, e che l’evento sia concretizzazione di tale rischio “lavorativo”, non essendo all’uopo sufficiente che lo stesso si verifichi in occasione dello svolgimento di un’attività lavorativa”. 

Qui la Cassazione cita l’esclusione da parte della Suprema Corte della configurabilità della circostanza aggravante in relazione ai reati di omicidio colposo ascritti, quali datori di lavoro, ad esponenti di Trenitalia s.p.a. e di Ferrovie dello Stato s.p.a., per le morti di soggetti terzi estranei all’organizzazione di impresa, causate dall’incendio derivato dal deragliamento e successivo ribaltamento di un treno merci che trasportava GPL, durante l’attraversamento della stazione di Viareggio, determinato dal cedimento di un assile ferroviario dovuto al suo stato di corrosione, ritenendo le vittime non esposte al rischio “lavorativo” bensì a quello attinente alla “sicurezza della circolazione ferroviaria”.

L’evoluzione giurisprudenziale impone, dunque, in prima battuta, spiegano gli Ermellini, “di identificare lo specifico rischio concretizzatosi nell’evento al fine di verificare se esso sia interno od esterno alla sfera rispetto alla quale il datore di lavoro è tenuto direttamente ad assicurare l’incolumità soggettiva altrui”. 

 

Nessuna responsabilità del datore di lavoro se il mezzo in questione è omologato

La Corte territoriale al riguardo aveva affermato che, nel caso in esame, l’evento si era prodotto per due ordini di ragioni: la prima è che il DVR non aveva tenuto in considerazione gli spazi stradali nei quali le operazioni di raccolta dei rifiuti urbani dovevano essere svolte, non conformando alle loro caratteristiche i mezzi da utilizzare; la seconda è che, essendo l’autocompattatore, per le sue caratteristiche costruttive, inidoneo allo svolgimento di manovre di retromarcia in sicurezza, esso avrebbe dovuto essere utilizzato dal datore solo con due operatori oppure munito di dispositivi capaci di esplorare visivamente lo spazio retrostante il veicolo. 

Come detto e rimarcato dalla Cassazione, i giudici di merito non hanno messo in discussione la rispondenza dell’autocompattatore monoperatore a carico laterale, omologato dal Ministero per i Trasporti, alla Direttiva Macchine, ma hanno egualmente ritenuto che il datore di lavoro non avrebbe potuto adibire un veicolo di simili dimensioni alla raccolta in aree ad elevato traffico pedonale, in cui fosse necessario procedere in retromarcia, stante la presenza di un “cono d’ombra” che, nonostante la predisposizione degli specchietti retrovisori e della telecamera ubicata sul lato posteriore del cassone (a circa 3,2 metri dal piano viabile), attivata automaticamente con l’inserimento della retromarcia, impediva la completa visibilità posteriore.

E qui, entrando nel cuore della sentenza, la Suprema Corte osserva che la presenza dell’omologazione da parte dell’autorità competente per la verifica della conformità del veicolo alle caratteristiche tecniche di sicurezza previste per la specifica attività cui esso deve essere adibito, secondo quanto previsto dalla normativa interna ed europea (2007/46/CE recepita con decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti del 28 aprile 2008 e norme tecniche UNI EN) “non imponeva al suo utilizzatore di provvedere ad ulteriori verifiche, stante l’affidamento che l’utente può riporre sulla valutazione svolta dall’ente preposto in relazione alla sicurezza del veicolo ed al suo uso, essendo, peraltro, escluso che l’utilizzatore possa portare autonome modifiche senza sottoporle ad un nuovo vaglio di conformità”. 

Ciò, proseguono gli Ermellini, “implica che nessun addebito possa ascriversi agli imputati per non avere valutato, in assenza di elementi di conoscenza dell’oggettiva manchevolezza tecnica del mezzo, la sua insicurezza nella manovra di retromarcia, posto che l’autocompattatore era dotato non solo di specchietti e di un sistema sonoro e luminoso di avvertimento, ma di una telecamera che consentiva al conducente di verificare la zona retrostante il mezzo ed era stato così omologato per essere condotto da un solo operatore”. Viene dunque meno, secondo gli Ermellini, la contestazione relativa all’omesso impiego di più lavoratori per l’utilizzo del veicolo, “perché l’omologazione garantisce che tutte le manovre – e quindi anche la retromarcia – possano essere fatte in sicurezza da una persona sola, con le dotazioni di cui esso è munito”. 

 

Nessuna violazione di norme antinfortunistiche, incidente inerente la circolazione stradale

Fatta questa premessa, “e chiarito che legittimamente l’impresa di raccolta dei rifiuti ha utilizzato l’autocompattatore “monoperatore a carico laterale’”così come omologato affidandolo ad un solo soggetto”, a questo punto la Cassazione passa ad approfondire il secondo aspetto su cui i giudici di merito hanno fondato la declaratoria di penale responsabilità, inerente all’omessa valutazione dei rischi derivanti dallo stato dei luoghi. 

“II presupposto, come si è visto, è che ciascuna delle zone di svuotamento dei cassonetti costituisca tecnicamente luogo di lavoro” spiegano i giudici del Palazzaccio, che tuttavia non condividono tale affermazione, “perché essa implica che qualunque tratto di strada pubblica o privata costituisca di per sé luogo di lavoro, se ivi siano posizionati dei cassonetti di raccolta, rimettendo al datore di lavoro di provvedere alla messa in sicurezza di aree sulle quali egli non ha potere conformativo, potendo esclusivamente valutare se ricorrere ad un mezzo o ad un altro, a seconda delle caratteristiche dei luoghi, al fine di evitare di esporre i lavoratori a rischi di natura lavorativa, cioè derivante dall’uso delle attrezzature utilizzate, in quegli specifici luoghi”. 

Questa valutazione, prosegue la Cassazione, “non comporta affatto l’esclusione dell’utilizzo di un particolare tipo di veicolo solo perché esso, per provvedere alla raccolta in quella specifica area, debba procedere per un tratto in retromarcia, posto che questo tipo di andatura è consentita dal Codice delle Strada, con i limiti fissati dall’art. 154 C.d.S., che prescrive che la manovra debba essere effettuata senza creare pericolo o intralcio agli altri utenti della strada, tenendo conto della posizione, distanza, direzione di essi e segnalandone “con sufficiente anticipo” l’intenzione“. 

Al contrario, secondo la Suprema Corte, ciò di cui il datore di lavoro deve farsi carico è di verificare se la manovra in sé, avuto riguardo al tipo di veicolo utilizzato, possa essere svolta in sicurezza dai lavoratori, in modo che essi non si trovino esposti a pericoli derivanti dalla sua effettuazione, “il che è pacificamente avvenuto nel caso di specie, avendo il datore di lavoro adottato un mezzo monoperatore omologato, dotato di strumentazione ritenuta adeguata e perfettamente funzionante”. Pertanto, concludono gli Ermellini, il rischio concretizzatosi “non può dirsi dipeso dalla violazione di un precetto rivolto alla tutela della salute dei lavoratori, in quanto esso non è scaturito dalla mancata mappatura dei luoghi di raccolta dei rifiuti o dall’errata scelta di un particolare mezzo con cui provvedervi – perché da utilizzare anche in retromarcia -, ma dalla difettosità strutturale del mezzo, il quale, benché omologato, non consentiva la piena visuale della zona retrostante, essendovi un cono d’ombra non coperto né dagli specchietti retrovisori, né dalla telecamera posteriore. Ed invero, il sinistro non si è affatto verificato a causa della lunghezza della retromarcia necessaria all’automezzo per effettuare la manovra – peraltro pari in concreto a soli quattordici metri tra l’inizio della manovra e l’impatto -, ma esclusivamente per l’inconsapevolezza dell’operatore di effettuare una manovra parzialmente “cieca” a causa dell’oggettiva inadeguatezza dell’autocompattatore, non conosciuta dal conducente e non prevedibile dal suo datore di lavoro, stante l’omologazione del veicolo, come equipaggiato”.

La Cassazione conclude quindi assedendo che “il sinistro è avvenuto in occasione dello svolgimento di un’attività lavorativa, ma non con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, perché il rischio concretizzatosi si pone al di fuori della sfera di gestione del datore di lavoro, che si è limitato ad adibire all’attività un automezzo specificamente omologato quale monoperatore, cui non era interdetta la retromarcia, inerendo piuttosto alla circolazione stradale, essendosi realizzato un evento dipeso dalla presenza di più utenti su un tratto stradale, cagionato dalla strutturale difettosità di un automezzo regolarmente omologato”. La sentenza impugnata è stata pertanto annullata senza rinvio perché gli imputati non hanno commesso il fatto”.

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