Il trauma post-traumatico da rapina si configura come infortunio sul lavoro
Potrebbe sembrare un caso limite, ma non lo è affatto. Sono migliaia i lavoratori, soprattutto cassieri, ma non solo, dipendenti e liberi professionisti, impiegati in banche, uffici postali, negozi e attività varie, che si sono ritrovati, almeno una volta nella vita, faccia a faccia con un malvivente e a cui è stato intimato, spesso dietro la minaccia di un’arma, un coltello o una pistola, di consegnare l’incasso.
Dipendente riporta uno stress post traumatico da… rapina
Un’esperienza terribile che lascia il segno e che può sfociare in una patologia psichica, con tutto ciò che ne consegue.
Ma in questo caso si tratta di una malattia professionale o di un infortunio sul lavoro? Non è proprio una questione di lana caprina, come dimostra il caso di donna che il 27 aprile del 2000 era rimasta coinvolta in una rapina all’interno del suo ambiente di lavoro dalla quale le era derivato un trauma psico emotivo con disturbo post-traumatico da stress.
La lavoratrice aveva presentato domanda per ottenere la corresponsione dell’indennizzo in capitale di cui all’art. 13 d.lgs. n. 38 del 2000, pari al 10% di inabilità in conseguenza dell’infortunio e il Tribunale di Civitavecchia aveva accolto l’istanza.
Con sentenza del 9 giugno 2013, tuttavia, la Corte d’Appello di Roma ha accolto l’appello proposto dall’Inail nei confronti della donna, che a sua volta aveva proposto appello incidentale per ottenere l’accertamento di un grado di inabilità pari al 15%.
La Corte ha infatti ritenuto fondata la doglianza dell’Istituto relativa all’inapplicabilità alla fattispecie della normativa introdotta dal d.lgs. n. 38 del 2000, posto che si trattava di infortunio, e non di malattia professionale, avvenuto prima del 25 luglio 2000 ai sensi dell’art. 73, comma 3, I. n. 388 del 2000, per cui il 10% di inabilità non poteva ritenersi sufficiente ad ottenere la prestazione trattandosi di fattispecie ricadente nella previgente disciplina di cui al D.p.r. n. 1124 del 1965 che richiedeva almeno l’11 % di inabilità.
E la Corte d’Appello ha ritenuto corretta e condivisibile la consulenza tecnica medico legale espletata.
Il ricorso per Cassazione
La lavoratrice ha dunque appellato quest’ultima sentenza per Cassazione sulla base di tre motivi: più precisamente, violazione e o falsa applicazione dell’art. 13 d.lgs. n. 38 del 2000 nonché dell’art. 137 t.u. n. 1124 del 1965; omesso esame dì un fatto decisivo ai fini del giudizio che si identifica nel momento in cui sono stati identificati gli agenti causali, le eventuali concause, l’epoca in cui è stata diagnosticata la malattia; motivazione apparente per aver troppo sinteticamente fatto mero rinvio alla Ctu.
L’Inail ha a sua volta proposto con contro-ricorso.
A interessare, qui, è in particolare il primo motivo di ricorso, con il quale in buona sostanza si censura la qualificazione dell’evento in termini di infortunio e la consequenziale affermata inapplicabilità ratione temporis della normativa introdotta dall’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000.
Un motivo che, come peraltro gli altri, secondo la Suprema Corte è infondato.
La rapina è a tutti gli effetti un incidente sul lavoro
“Secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte – recita la sentenza con cui la Cassazione – sezione Lavoro si è pronunciata sul caso, la n. 8301/2019 depositata il 25 marzo 2019 – la nozione legale di causa violenta lavorativa comprende qualsiasi fattore presente nell’ambiente di lavoro in maniera esclusiva o in misura significativamente diversa che nell’ambiente esterno, il quale, agendo in maniera concentrata o lenta, provochi (nel primo caso) un infortunio sul lavoro o (nel secondo) una malattia professionale; nel caso di specie, è indubbio che la rapina quale atto doloso del terzo si configuri come causa violenta e concentrata, potenziale generatrice di danni alla salute della vittima, e cioè quale causa di un infortunio ai sensi dell’art. 2 del tu. n. 1124 del 1965, con ogni conseguenza relativa all’applicazione del criterio di successione di legge derivante dalla introduzione dell’art. 13 d.l.gs. n. 38 del 2000”.
La Suprema Corte chiarisce anche che ha diversa rilevanza la considerazione di un’eventuale non immediata percezione delle reali origini dello stato invalidante, “che potrebbe rilevare ad esempio quanto alla individuazione del dies a quo della prescrizione ex art. 112 del t.u. n. 1124 del 1965, ma non certo a determinare di per sé la qualificazione dell’evento in termini di malattia professionale”.
Insomma, per concludere, chi avesse subito al lavoro una rapina riportando in seguito alla brutta esperienza conseguenze di natura psicologica e chiedendo quindi un congruo risarcimento, deve procedere in tutto e per tutto come se avesse subito un incidente sul lavoro.