Il danno da tardiva diagnosi di una malattia “infausta”

Come e in che misura va risarcito il danno arrecato a un paziente a cui viene diagnosticata con ritardo una patologia incurabile? Di questa delicatissima e complessa tematica si è occupata la Cassazione nell’ordinanza n. 28632/22 depositata il 3 ottobre 2022, che rappresenta un punto di riferimento importante per trattare i casi, purtroppo tutt’altro che infrequenti, simili. 

Un lungo contenzioso per il risarcimento del danno da diagnosi tardiva di patologia incurabile

La moglie e il figlio di un tassista di soli 58 anni avevano citato in causa due medici chiedendo il risarcimento dei danni subiti per il decesso, nel 1998, del loro caro a causa della tardiva diagnosi operata dai due sanitari dell’adenocarcinoma polmonare che aveva colpito la vittima, con la conseguente violazione del diritto di quest’ultimo di “determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto”. 

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 2004, aveva accolto la domanda riconoscendo loro il risarcimento richiesto, ma i due medici avevano appellato la sentenza, e il caso era già approdato una prima volta in Cassazione che nel 2018, con sentenza n. 7620/18, aveva rinviato la causa alla Corte d’appello di Roma. E quest’ultima, con sentenza ex art. 281 sexies c.p.c. del 10 giugno 2020, quale giudice del rinvio, in parziale accoglimento del gravame interposto due sanitari, e in conseguente parziale riforma della pronunzia del Tribunale capitolino, aveva rideterminato in diminuzione la somma liquidata dal giudice di prime cure a loro carico e in favore dei familiari della vittima. 

Contro questa decisione i congiunti del tassista anno proposto ricorso per Cassazione lamentando in buona sostanza il fatto che per la valutazione equitativa del danno il giudice del rinvio avesse fatto ricorso a criteri a loro dire inconferenti con il caso specifico. Ma la Suprema Corte ha rigettato i motivi di doglianza, ripercorrendo tutta la complesso vicenda giudiziaria. 

Gli Ermellini rammentano innanzitutto che all’esito del rinvio disposto dalla Cassazione nel 2018,  era stato affermato il principio in base al quale “è autonomamente risarcibile la violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali (nella specie determinata dal colposo ritardo diagnostico di patologia ad esito certamente infausto ), invero non coincidente con la perdita di “chances” connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere e autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale”, e il danno “è liquidabile in base a valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., in difetto di relativa contemplazione nelle Tabelle di Milano”.  Ebbene, il giudice del rinvio, secondo la Suprema Corte, lo ha effettivamente determinato equitativamente, “in piena e corretta applicazione del principio affermato da questa Corte secondo cui la valutazione equitativa del danno deve effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, al fine di consentire il controllo di relativa logicità, coerenza e congruità e di evitare che la valutazione risulti sostanzialmente arbitraria”.

 

Il difficile equilibrio tra necessaria valutazione del caso concreto e rischio di arbitrarietà

I giudici del Palazzaccio ricordano infatti come risponda a un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità “che la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. è rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa, essendosi al riguardo precisato che ove ne sussistano le condizioni il giudice – anche d’appello – può farvi ricorso anche senza domanda di parte, in base al suo prudente apprezzamento. 

La Cassazione, dopo aver precisato che in realtà anche di alcuni aspetti o voci del danno patrimoniale la valutazione “non può essere che equitativa” (di veda il danno patrimoniale futuro), ribadisce che “il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può viceversa mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto sempre la valutazione equitativa. E attenendo alla quantificazione e non già all’individuazione del danno (non potendo pertanto valere a surrogare il mancato assolvimento dell’onere probatorio imposto all’art. 2697 c.c.), la valutazione equitativa è volta a determinare la compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio, quella che l’ambiente sociale accetta come compensazione equa, e deve essere dal giudice effettuata considerando in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione”. 

La Suprema Corte chiarisce inoltre che l’esigenza di una tendenziale uniformità della valutazione di base della lesione “non può d’altro canto tradursi in una preventiva “tariffazione” della persona, essendo al riguardo da considerarsi aspetti personalistici che rendono necessariamente individuale e specifica la relativa quantificazione nel singolo caso concreto”. E specifica anche che il danno non patrimoniale “non può essere in ogni caso liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati alla sua effettiva natura o entità, ma deve essere congruo”. 

Dunque, compito del giudice è quello di accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, “individuando quali ripercussioni negative sul patrimonio e sul valore persona si siano verificate in conseguenza dell’evento dannoso, provvedendo al relativo integrale ristoro”.

I giudici del Palazzaccio tornano quindi a ripetere che  ai fini della valutazione equitativa del danno sia patrimoniale che non patrimoniale “si è esclusa la possibilità di applicare in modo “puro” parametri rigidamente fissati in astratto giacché, non essendo in tal caso consentito discostarsene, risulta garantita la prevedibilità delle decisioni ma assicurata un’uguaglianza meramente formale, e non già sostanziale”. Per converso, tuttavia, risulta anche inidonea una valutazione “rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice, in assenza cioè di qualsivoglia criterio generale valido per tutti i danneggiali a parità di lesioni, e pertanto in realtà affidata al suo mero arbitrio, giacché se essa si appalesa teoricamente idonea ad assicurare un’adeguata personalizzazione del risarcimento, non altrettanto può dirsi circa la parità di trattamento e la prevedibilità della decisione”.

 

Il giudice deve anche motivare bene le sue (difficili) scelte

Insomma, un compito al riguardo, quello del giudice, particolarmente complicato, fermo restando che, prosegue la sentenza, “è fondamentale che, qualunque sia il sistema di quantificazione prescelto, lo stesso si riveli idoneo a consentire di pervenire ad una valutazione del danno informata ad equità, e che il giudice dia adeguatamente conto in motivazione del processo logico al riguardo seguito, indicando quanto assunto a base del procedimento valutativo seguito”. Infatti, aggiungono gli Ermellini, dato che nella liquidazione equitativa (anche nella sua forma cosiddetta “pura”), “non può prescindersi dalla considerazione che essa consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale il giudice è chiamato a dare in motivazione conto della operata valutazione di ciascuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento”, Con la conseguenza che, laddove non risultino indicate le ragioni dell’operato apprezzamento né richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, “la sentenza incorre nel vizio di nullità per difetto di motivazione, non potendo al riguardo valorizzarsi del tutto generiche ed apodittiche indicazioni”. 

Ma secondo la Cassazione non è questo il caso, perché, “la corte di merito ha nell’impugnata sentenza invero puntualmente indicato i criteri di determinazione del danno cui ha fatto nella specie riferimento”. Dopo aver dato atto che, contrariamente a quanto avviene per il caso di danno non patrimoniale per lesione all’integrità fisica, “per il danno per omessa tempestiva diagnosi non soccorrono le note tabelle di elaborazione giurisprudenziale”, il giudice del rinvio ha  espressamente affermato “di dover al riguardo valutare tutte le circostanze del caso concreto”: in particolare, si è tenuto conto dell’età del paziente al momento della morte (58 anni), del periodo di ritardo intercorso fra il primo accertamento diagnostico (il 30 ottobre 1997), la diagnosi di tumore (quasi un anno dopo, il 6 ottobre 1998) e il decesso (il 17 dicembre dello stesso anno), delle condizioni generali di salute del paziente nei mesi intercorsi tra il primo accertamento e l’effettiva corretta diagnosi, da cui emergeva che che il tassista, nel periodo considerato, avvertiva “dolori al torace, dispnea da sforzo, tosse scarsa“, che però non lo avevano mai costretto a un blocco totale della sua attività, a riprova quindi che la vittima, nei mesi precedenti, “ben avrebbe potuto, ove avesse avuto piena contezza delle proprie effettive condizioni di salute, gestire in modo autonomo e con piena consapevolezza esistenziale la propria vita, in vista dell’inevitabile esito finale”: elementi, questi, che la Suprema Corte aveva raccomandato di doversi prendere in considerazione nella liquidazione del danno in via equitativa ex art. 1226 c.c. anche in un’altra ipotesi simile parimenti non contemplata, “diversamente che da quelle di Roma”, dalle Tabelle di Milano. Il ricorso è stato pertanto rigettato.

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