L’onere probatorio per i danni patiti in seguito ad emotrasfusioni

Nonostante i passi avanti compiuti negli anni, quello dei danni alla salute subiti dai pazienti a seguito della trasfusione di sangue infetto resta un problema ancora attuale, anche perché le infezioni e le patologie contratte in conseguenza di emotrasfusioni  sono particolarmente gravi, dall’Hiv all’epatite C, solo per citarne due, e possono condurre al decesso.

Per questo è importante l’ordinanza n. 10592/21 depositata il 22 aprile 2021 con cui la Cassazione precisa un importante principio a tutela dei tanti danneggiati relativamente all’onere probatorio, chiarendo che nell’eventuale controversia con la struttura sanitaria responsabile per ottenere il risarcimento non è la vittima a dover provare che l’ospedale ha tenuto una condotta negligente o imprudente nella acquisizione e nella perfusione del plasma, ma è quest’ultimo a dover dimostrare di aver rispettato tutte le norme prescritte.

 

Una paziente che aveva contratto l’epatite per una trasfusione da sangue infetto intenta una causa

Nel 2007 una donna aveva citato dinanzi al Tribunale di Catania il Ministero della salute, l‘Assessorato per la sanità della Regione Sicilia ed il Commissario liquidatore della gestione stralcio della ex Usi della Provincia di Catania, chiedendone la condanna al risarcimento del danno patito per aver contratto una infezione causata dal virus dell’HCV (l’epatite C) in conseguenza di una emotrasfusione cui era stata sottoposta nell’ospedale “Gravina” di Caltagirone nel lontano 1987.

I giudici, con sentenza del 2011, avevano accolto la domanda della paziente nei confronti del Ministero e dell’Assessorato, gli unici ad essersi costituiti, i quali tuttavia avevano poi appellato la decisione.  La Corte d’appello di Catania, con sentenza 27 novembre 2017, aveva accolto il gravame proposto dall’Assessorato, rigettando la domanda della paziente nei confronti di quest’ultimo in quanto la danneggiata non aveva mai allegato che l’ospedale di Caltagirone avesse provveduto alle trasfusioni approvvigionandosi di sangue tramite un proprio centro trasfusionale e non, come avviene nella normalità dei casi, utilizzando sacche di provenienza esterna.

La paziente ha quindi proposto ricorso per Cassazione contestando, tra i vari motivi, il fatto che la Corte d’Appello le avesse addossato l’onere di allegare e provare che l’ospedale in questione avesse eseguito la trasfusione con sacche di plasma prelevate da un proprio centro trasfusionale, e la Suprema Corte le ha dato ragione.

I giudici del Palazzaccio evidenziano come in primo grado la ricorrente, a fondamento della colpa dell’azienda ospedaliera, aveva allegato – in sintesi – che l’obbligo di assistenza sanitaria gravante sull’ospedale comportava la garanzia del risultato di non infettare il paziente, ed aveva invocato il principio res ipsa loquitur, in virtù del quale il fatto stesso dall’infezione dimostrava di per sé che l’ospedale aveva tenuto una condotta colposa.

 

Al paziente incombe solo l’onere di allegare l’esistenza di una condotta inadempiente

La danneggiata dunque, nell’atto introduttivo del giudizio, aveva allegato di avere subito un danno alla salute in conseguenza di un trattamento sanitario e invocato la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, “assolvendo compiutamente in questo modo l’onere di allegazione dei fatti costitutivi della domanda – spiega la Cassazione -: tale onere, infatti, quando venga invocata la responsabilità contrattuale si esaurisce nell’allegazione dell’esistenza del contratto e di una condotta inadempiente. L’attrice, di conseguenza, non aveva alcun onere di allegare e spiegare come, quando e in che modo l’ospedale di Caltagirone si fosse approvvigionato delle sacche di plasma risultate infette. Ad essa incombeva il solo onere di allegare una condotta inadempiente del suddetto ospedale.

È la struttura a dover provare di aver tenuto una condotta corretta e diligente

Per contro, proseguono gli Ermellini, era onere della struttura sanitaria allegare e dimostrare, ai sensi dell’articolo 1218 c.c., di avere tenuto una condotta irreprensibile sul piano della diligenza. La Corte d’appello, dinanzi alla domanda attorea, avrebbe dunque dovuto in concreto accertare se l’assessorato, successore dell’azienda ospedaliera, avesse o non avesse provato la causa non imputabile di cui all’articolo 1218 c.c., a nulla rilevando che l’attrice non avesse allegato che l’ospedale abbia provveduto alle trasfusioni approvvigionandosi di sangue tramite un proprio centro trasfusionale. La circostanza che l’ospedale provvedesse o meno da sé all’approvvigionamento di plasma non era un fatto costitutivo della domanda, ma era un fatto impeditivo della stessa, che in quanto tale andava allegato e provato dall’amministrazione convenuta. Trascurando di stabilire se l’assessorato avesse fornito tale prova, pertanto, la Corte d’appello effettivamente violato gli articoli 1218 e 2697 c.c.. 2.2”. Nei precedenti gradi di giudizio, infatti, non si era colpevolmente accertato nulla circa la condotta dell’ospedale, il rispetto dei protocolli vigenti all’epoca, la qualificazione della sua condotta in termini di diligenza professionale ex articolo 1176, comma secondo, c.c.

Nel cassare la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello catanese per il riesame della causa, la Cassazione pronuncia il principio di diritto a cui i giudici di merito dovranno attenersi: “nella controversia tra il paziente che assuma di avere contratto un’infezione in conseguenza di un’emotrasfusione, e la struttura sanitaria ove quest’ultima venne eseguita, non è onere del primo allegare e provare che l’ospedale abbia tenuto una condotta negligente o imprudente nell’acquisizione e nella perfusione del plasma, ma è onere del secondo allegare e dimostrare di avere rispettato le norme giuridiche e le leges artis che presiedono alle suddette attività”.

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