Le cause di esclusione o diminuzione dell’imputabilità
La cronaca giudiziaria moderna, filtrata attraverso la lente deformante dei media, ci propone una visione del processo penale che, per alcuni versi, lo relega al ruolo di fucina di notizie sensazionalistiche sulle quali il pubblico televisivo esprime in maniera istintiva la propria opinione, vanificando le procedure tecniche e i percorsi logico giuridici che conducono giudici all’emanazione di una sentenza.
Molto scalpore, in particolare, hanno destato alcune decisioni intervenute a seguito di efferati omicidi, in base alle quali la pena irrogata al reo è stata rideterminata e ridotta a causa di valutazioni sulla capacità processuale e sull’imputabilità degli stessi.
E sono stati enfatizzati i concetti di “tempesta emotiva” e di “stati emotivi traumatici” rilevati negli imputati di alcuni dolorosi processi per omicidio volontario. Bisogna però considerare anche la più profonda valutazione alla quale il giudice è chiamato quando esamina l’imputabilità del reo.
È pertanto opportuno che, molto brevemente ed in maniera asettica, senza entrare nel merito di alcuna vicenda, si puntualizzino alcuni cardini del diritto penale per comprendere meglio alcuni esiti processuali.
L’imputabilità
Il concetto normativo di “imputabilità” viene disciplinato all’art. 85 del Codice Penale: il comma I la definisce come la capacità del soggetto di essere assoggettabile a pena e il comma II la delimita in maniera più chiara come la capacità di intendere e di volere l’azione posta in essere.
La dottrina ritiene che l’imputabilità non sia una mera capacità alla pena, ma abbia anche la funzione di presupposto della colpevolezza ed il suo ruolo deve cogliersi partendo dalla teoria generale del reato, che è un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e la colpevolezza non è solo dolo o colpa ma anche riprovevolezza, rimproverabilità. Conseguentemente, l’imputabilità è più di una semplice condizione soggettiva di riferibilità della conseguenza del reato data dalla pena: essa diviene la condizione dell’autore che rende possibile la rimproverabilità del fatto.
Non è esclusivamente capacità di pena, dunque, ma capacità di reato o, meglio, capacità di colpevolezza: quindi, non può esservi colpevolezza senza imputabilità. In altre parole, la colpevolezza si concreta in un rimprovero per il fatto commesso, mentre l’imputabilità consente la rimproverabilità del fatto, atteggiandosi come presupposto della colpevolezza.
I limiti di applicabilità dell’istituto dell’imputabilità dipendono dal concetto di pena che si intenda privilegiare: considerata nella teoria della funzione retributiva della pena, se quest’ultima deve servire a compensare la colpa per il male commesso, non può non rilevarsi che essa si giustifica solo nei confronti di soggetti che hanno scelto di delinquere in piena libertà.
Dal punto di vista preventivo, invece, ponendosi in esame il rapporto tra libertà del volere e funzione preventiva, tale funzione potrà rivolgersi solo a soggetti che siano in grado di cogliere il precetto contenuto nella norma e fra questi non sembra che possano annoverarsi anche i soggetti non imputabili, in quanto tali ritenuti non suscettibili di deterrenza mediante minacce sanzionatorie.
La Corte Costituzionale ha ribadito in più occasioni , tra l’altro, la «necessità, per la punibilità del reato, dell’effettiva coscienza, nell’agente, dell’antigiuridicità del fatto»; la stessa Corte aveva anche sottolineato che «la colpevolezza costituzionalmente richiesta (…) non costituisce elemento tale da poter essere, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato» e ciò in ossequio alla «funzione di garanzia che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza».
Dunque, restano inalterati «il valore della colpevolezza, la sua “insostituibilità”, la sua “indispensabilità” quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale (…) Il principio di colpevolezza (…), più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto».
Difatti, in un sistema come il nostro, che «pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può essere strumentalizzata neppure a fini di prevenzione generale) …», la Corte Costituzionale «ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su “congrui” elementi subiettivi» (Corte Cost., sent. n. 313/1990).
Le cause di esclusione o diminuzione dell’imputabilità: minore età ed infermità di mente
L’art. 85 Cod. Pen. è una norma di principio e le cause di esclusione o di diminuzione dell’imputabilità codificate rappresentano semplici specificazioni non tassative. Analizzando le cause di esclusione, viene presa preliminarmente in considerazione la minore età.
L’art. 97 del codice di procedura penale prevede una presunzione assoluta di incapacità per il minore di anni quattordici, e il successivo art. 98 rimette al Giudice la valutazione della maturità del minore infraquattordicenne, che va accertata in relazione alla natura del reato commesso, per evitare facili indulgenze che potrebbero vanificare le esigenze di prevenzione generale.
Il legislatore mette in risalto il concetto che l’incapacità del minore, a differenza dell’infermità mentale, dipende da una condizione di immaturità delle capacità cognitive e volitive e da un suo inadeguato sviluppo della coscienza morale. Pertanto, al raggiungimento della maggiore età, il Codice prevede una presunzione relativa di capacità di intendere e di volere, perché può essere esclusa o diminuita dal vizio totale o parziale di mente o da altre cause normativamente previste.
L’art. 88 del codice penale prevede la non imputabilità del soggetto che, al momento della commissione del reato, per infermità, è in tale stato di mente da non avere la capacità di intendere o di volere. Accanto all’infermità totale, il codice disciplina, all’art. 89, l’infermità parziale, ipotesi per la quale si prevede una diminuzione della pena, poiché la capacità di intendere e di volere appare grandemente scemata.
L’abuso di sostanze
Diverse sono le previsioni normative, invece, nel caso di intossicazione da stupefacenti e per l’ubriachezza, dove il codice disciplina un trattamento differenziato rapportato alla causa che ne ha generato lo stato.
L’intossicazione accidentale, dovuta a caso fortuito o a forza maggiore, determina l’esclusione o la diminuzione dell’imputabilità dell’agente, in quanto la perdita della capacità di intendere o di volere del soggetto viene cagionata da un fattore del tutto imprevedibile o da una forza esterna alla quale lo stesso non può opporre resistenza e, pertanto, non può essergli mosso alcun rimprovero.
Differentemente, l’assunzione di sostanze stupefacenti o alcoliche, quando è volontaria o colposa, non esclude o diminuisce l’imputabilità e, quando è preordinata alla commissione del reato, determina un aumento di pena. L’intossicazione derivante dall’uso abituale di sostanze stupefacenti od alcoliche prevede un aumento della pena quando il reo commette il fatto criminoso sotto l’influenza delle sostanze assunte e sia dedito all’uso di esse.
Inoltre, l’intossicazione cronica viene assimilata al vizio totale o parziale di mente e, secondo la giurisprudenza, esclude o diminuisce l’imputabilità quando si risolve in un vero e proprio stato patologico caratterizzato dalla «permanenza e dalla irreversibilità di guarigione e, cioè, da condizioni psichiche irreversibili, che si connotano per la impossibilità di guarigione del soggetto e, cioè, da condizioni psichiche che permangono indipendentemente dal rinnovarsi dell’assunzione o meno delle sostanze stupefacenti, condizioni che, in ogni caso, debbono essere valutate con riferimento al momento in cui il fatto-reato è stato commesso».
Pertanto, se da un lato la giurisprudenza di legittimità circoscrive l’intossicazione cronica alla fase in cui il soggetto si trova in uno stato permanente ed irreversibile, indipendentemente dall’assunzione della sostanza stupefacente od alcolica, dall’altra la Corte Costituzionale, nella sentenza interpretativa di rigetto n. 114/1998, propone una lettura più ampia della cronica intossicazione.
In particolare, l’assunzione abituale si differenzia da quella cronica perché la prima ha un perturbamento transitorio e non presenta alterazioni patologiche delle capacità intellettive e volitive, che ne giustificano la non imputabilità. Anzi l’art. 94, comma 3, Cod. Pen. prevede un aumento di pena perché il soggetto si pone colpevolmente nello stato di intossicazione. Pertanto, secondo tale interpretazione, ricorre l’assunzione abituale tutte le volte in cui il tossicodipendente o l’alcolista agiscano colpevolmente, avendo contezza piena del significato e degli effetti della propria condotta.
Il sordomutismo e gli stati emotivi e passionali
Particolare disciplina è prevista per il sordomutismo, che compromette la capacità di autodeterminazione del soggetto; la legge non prevede una presunzione assoluta di non imputabilità, in quanto occorre accertare, volta per volta, l’incidenza dell’affezione sulla maturità psichica del soggetto. All’uopo, la giurisprudenza di legittimità ha sancito che «il sordomutismo non costituisce una vera e propria malattia della mente, valendo soltanto eventualmente ad impedire o ad ostacolare lo stato di sviluppo della psiche e, dunque, la maturità psichica».
L’art. 90 Cod. Pen. disciplina, poi, gli stati emotivi e passionali che non escludono o diminuiscono l’imputabilità, ma sono stati della persona che incidono sulla lucidità e che, per escludere l’imputabilità, richiedono un quid pluris che determini, nel soggetto agente, un vero e proprio stato patologico.
Questa disposizione specifica che i fattori che non attengono alla sfera intellettiva o volitiva del soggetto, ma a quella sentimentale o affettiva, data da emozioni (collera, gioia, paura, ansia, vergogna, e così via) e passioni (amore, odio, invidia, gelosia, e così via) sono completamente estranei al concetto di imputabilità. Trattasi di norma che riflette innanzitutto l’assunto dell’equivalenza tra “infermità” escludente l’imputabilità e “malattia mentale” in senso stretto; in secondo luogo si giustifica con la preoccupazione politico-criminale di evitare di dichiarare incapace di intendere e di volere ogni autore di delitto “impulsivo”.
Dire che gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità equivale a dire che non influiscono per nulla sulla rimproverabilità del fatto al suo autore e, pertanto, sulla colpevolezza.
Perciò, gli stati emotivi e passionali non sarebbero di per sé una infermità, ma possono essere sintomi, manifestazioni, prodotti di uno stato patologico che, quale autentica infermità, rileverà ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p. Con questa premessa, l’art. 90 c.p. può essere così interpretato: “non escludono né diminuiscono l’imputabilità gli stati emotivi e passionali “in sé e per sé considerati”, ovvero i meri stati emotivi e passionali non ricollegabili, come suoi effetti, o estrinsecazioni, ad una infermità che possa rilevare alla stregua delle disposizioni di cui ai due articoli precedenti”.
Secondo ultima recente giurisprudenza, la rilevanza scusante degli stati emotivi e passionali può essere ammessa solo in presenza di due condizioni essenziali e cioè che lo stato di coinvolgimento emozionale si manifesti in una personalità per altro verso già debole e che lo stato emotivo e passionale assuma, per particolari caratteristiche, significato e valore di infermità, sia pure transitoria.
In tal senso la giurisprudenza di legittimità ha affermato che gli stati emotivi e passionali, per loro stessa natura, sono tali da incidere, in modo più o meno massiccio, sulla lucidità mentale del soggetto agente senza che ciò, tuttavia, per espressa disposizione di legge, possa escludere o diminuire l’imputabilità, occorrendo a tal fine “un quid pluris che, associato allo stato emotivo e passionale, si traduca in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure di natura transeunte e non inquadrabile nell’ambito di una precisa classificazione nosografica”.
L’esistenza o meno di detto fattore va accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica, la quale non potrà mai attribuire carattere di “infermità” ad alterazioni anche occasionali della sfera psico-intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi e passionali di cui si sia riconosciuta l’esistenza.
Ed ancora: “gli stati emotivi e passionali possono avere rilievo ai fini dell’imputabilità quando siano idonei a far insorgere, sia pure episodicamente, una compromissione della coscienza la quale, ancorché non definibile secondo precise categorie cliniche, assuma, per particolari caratteristiche, significato e valore di malattia”.
Va sempre considerata la sofferenza delle vittime
Alla stregua di quanto sinteticamente evidenziato, resta pur sempre da considerare la grave sofferenza che ogni condotta penalmente rilevante arreca alle vittime e che, soprattutto nei gravi casi più quali quelli di omicidio volontario, non può certamente essere lenita dalle sole previsioni normative e giurisprudenziali.
E’ perciò opportuno che le letture interpretative delle sentenze, rese alla fine di un doloroso iter processuale, siano ispirate dal giusto connubio tra tecnicismo e comprensione delle ragioni umane perché, differentemente, banalizzando ed ignorando tutte le norme sostanziali e processuali, si compromette irreversibilmente il rapporto di fiducia verso lo Stato di Diritto che, con le sue garanzie fondamentali protegge, anche inconsapevolmente, tutti i consociati.
Avv. Aldo Fornari – Foro di Bari