Il risarcimento non può superare il massimale vigente all’epoca del fatto
Il diritto del danneggiato al risarcimento del danno nasce “limitato”, per volontà di legge, con la conseguenza che il relativo limite massimale, entro cui è tenuta la compagnia di assicurazione, valendo a delimitare normativamente tale diritto, è rilevabile anche d’ufficio dal giudice e “deve essere riferito alla tabella vigente al momento in cui il danno si è verificato”, anche se nel frattempo sono passati anni e le norme sono cambiate.
A ribadire, suo malgrado il concetto, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16148/19 del 17 giugno 2019.
Il massimale di polizza
Com’è noto, il massimale di un contratto di assicurazione rappresenta la somma massima che la compagnia di assicurazione pagherà, nel caso in cui si dovesse verificare l’evento per il quale è stato stipulato il contratto stesso.
Oggi il massimale minimo per legge è di 6 milioni di euro, ma solo pochi anni fa la cifra era di molto inferiore (e inadeguata) e lo Stato italiano è stato colpevolmente lento ad adeguarsi alle disposizioni europee.
La direttiva CEE dell’11 maggio 2005 aveva previsto l’innalzamento del massimale minimo a 5 milioni di euro per sinistro, riconoscendo sette anni di tempo a tutti gli Stati membri per adeguare l’obbligatorietà del nuovo massimale: all’epoca l’importo minimo di copertura era di appena un milione, del tutto inadeguato a risarcire integralmente i danni subiti dalle vittime dei sinistri, specie quelli gravi con più soggetti coinvolti e con ripercussioni sul diritto all’integrità della persona.
Lo Stato italiano si è preso tutti e sette gli anni di tempo che la Comunità Europea aveva dato per adeguarsi alla direttiva, ottemperando all’obbligo praticamente all’ultimo giorno utile, l’11 giugno 2012 appunto.
Di riflesso, si è aperto un ampio periodo di grave vuoto di tutela delle vittime dei sinistri stradali, in particolare quanti hanno subito gravi lesioni alla salute.
Un vuoto solo parzialmente attenuato dal temporaneo innalzamento del massimale a due milioni e mezzo a partire dall’11 dicembre 2009.
Chiamato in causa il Fondo Vittime con Generali
Il sinistro di cui si è occupata la Cassazione risale ancora più addietro nel tempo, alla fine del 2001: una donna era deceduta a causa di un incidente stradale mentre era trasportata come passeggera sull’auto – non assicurata – condotta dal figlio che, dopo aver tamponato un veicolo fermo in sosta, aveva invaso la corsia opposta di marcia e si era schiantato contro un muro.
Le sei figlie della vittima avevano citato in causa avanti il Tribunale di Napoli, oltre al fratello, la compagnia Generali quale impresa designata per la regione Campania del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, che interviene in caso di veicoli sprovvisti di copertura assicurativa, chiedendo la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento del danno morale derivante dalla morte della madre.
Il tribunale respinse come improcedibile la domanda, ma la Corte d’Appello partenopea, presso la quale le figlie della donna appellarono la sentenza di primo grado, nel 2017 accolse il gravame e riformò la decisione, condannando l’assicurazione e il fratello, in solido tra loro, a risarcirle pagando a ciascuna di loro la somma di 229mila euro, a titolo di risarcimento del complessivo danno non patrimoniale da ognuna di esse patito in conseguenza del sinistro, nonché le spese del doppio grado di giudizio.
La compagnia ricorre in Cassazione per superamento del massimale
Generali Italia S.p.a. ha quindi proposto ricorso per Cassazione basato su tre motivi, a cui hanno resistito le sei sorelle con controricorso illustrato da memoria.
Qui interessa il secondo, con il quale la compagnia lamenta violazione dell’art. 21 della legge n. 990 del 1969 e degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ..
La ricorrente ha sottolineato che, pur essendo il massimale previsto dalla legge (art. 21 citato) ed essendo, quindi, applicabile d’ufficio, e per avendo essa stessa precisato, in comparsa di costituzione in appello e successiva comparsa conclusionale, che l’esposizione dell’impresa designata non avrebbe potuto eccedere il massimale di legge vigente nel 2001, epoca del sinistro, pari a un milione e mezzo, la Corte di merito aveva ignorato tale indicazione condannandola a liquidare un importo totale pari a quasi al doppio del massimale di legge, “di cui non aveva tenuto conto del tutto immotivatamente, peraltro anche in assenza di una specifica domanda”.
La Suprema Corte accoglie le doglianze sul “massimale”
Secondo gli Ermellini questo motivo del ricorso è fondato per l’assorbente rilievo che effettivamente “la Corte di merito non ha rilevato d’ufficio il limite del massimale di legge ancorché la società ricorrente ne avesse rappresentato la sussistenza del massimale di legge, in tal modo non facendo corretta applicazione del principio già affermato da questa Corte”.
Principio che così recita: “In tema di responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, nella fattispecie disciplinata dagli artt. 19 e 21 della legge n. 990 del 1969, il diritto del danneggiato al risarcimento nasce, per volontà di legge, limitato, con la conseguenza che il relativo limite del massimale, entro il quale è tenuta la compagnia designata, non rappresentando un mero elemento impeditivo od estintivo, ma valendo per l’appunto a configurare ed a delimitare normativamente il suddetto diritto, è rilevabile, anche d’ufficio, e deve essere riferito alla tabella vigente al momento in cui il danno si è verificato» (Cass. 29/03/2006, n. 7247; Cass.13/12/2012, n. 22893)”.
La Cassazione ricorda anche che, in tema di risarcimento del danno derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, e per la ipotesi disciplinata dagli artt. 19 e 21 della legge 24 dicembre 1969 n. 990, i decreti con i quali sono stati modificati i limiti dei massimali “hanno natura di atti normativi, sebbene non di rango primario, e, quindi, si presumano noti al giudice e non hanno bisogno di essere provati dalla parte interessata (Cass.14/05/2013, n. 11552)”.
La Cassazione ha reputato fondato anche il terzo motivo di ricorso, e cioè che la Corte di merito avrebbe dovuto provvedere sulla domanda di rivalsa proposta dalla società ricorrente, e ha quindi cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione.