Compravendita degli animali: si applica il Codice del consumo
Gli animali da compagnia o d’affezione rappresentano oggi una componente essenziale della casa e soprattutto di una famiglia, per questo la loro compravendita assume una rilevanza ancor maggiore che in passato.
Ma quanto tempo ha l’acquirente, nel caso di tratti di un normale “consumatore” (se l’operazione non rientri cioè all’interno di attività d’impresa), per denunciare il “difetto”, ossia che l’animale a lui venduto aveva in realtà già in origine problematiche di salute o di altra natura? Due mesi dalla scoperta del “vizio” e questo perché in queste frequentissime transazioni va applicato non il Codice Civile ma il Codice del Consumo. Lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza n. 35844/22 depositata il 6 dicembre 2022.
La causa del neo proprietario di un cane che gli era stato venduto con gravi problemi di salute
La vicenda. Il (neo) proprietario di un cane aveva citato in giudizio dinanzi al tribunale di Roma una società agricola e un veterinario per sentirli condannare, in solido, a titolo di responsabilità contrattuale o extra contrattuale, al risarcimento dei danni subiti, quantificati nella complessiva somma di 5.200 euro a titolo di spese mediche, danni e riduzione del prezzo, in relazione all’acquisto di un bulldog inglese che, sin dal momento della vendita, era affetto da malattia diagnosticata come broncopolmonite con pleurite pericardite.
Secondo l’acquirente, la società, che gestiva un allevamento, era inadempiente per avergli consegnato un animale affetto da un vizio tale da renderlo in idoneo all’uso cui era destinato, la guardia, o da diminuirne in modo apprezzabile il valore, mentre il dottore, nell’esercizio della propria attività professionale di veterinario, sarebbe stato negligente per aver diagnosticato al cane una banale influenza, invece della ben più grave patologia riscontrata.
Il giudice di primo grado, disposta e valutata la consulenza tecnica d’ufficio, aveva accolto la domanda condannando l’allevamento e il veterinario in solido al risarcimento dei danni quantificati nella misura complessiva di 4.800 euro, oltre interessi e rivalutazione, ritenendo che la società fosse incorsa in un inadempimento di natura contrattuale e il veterinario in responsabilità di natura aquiliana.
In appello domanda risarcitoria respinta per tardiva segnalazione del difetto
I due soggetti condannati avevano tuttavia appellato la decisione e la Corte d’appello di Roma nel 2017 aveva accolto il gravame, rigettando, in riforma totale della sentenza di prime cure, la domanda risarcitoria: per l’aspetto che qui interessa, i giudici avevano ritenuto fondato e assorbente il secondo motivo di appello concernente l’erronea valutazione della tempestività della denunzia del vizio.
Il giudice di primo grado aveva ritenuto di superare l’eccezione di decadenza in quanto la stessa società aveva ammesso di aver riportato il cane presso l’allevamento 15 giorni dopo l’acquisto in quanto affetto da apparente rinite. In tale occasione, l’acquirente aveva denunziato che l’animale era ammalato, il cane era stato visitato presso l’allevamento e gli erano stati prescritti farmaci. La Corte d’Appello, premettendo che gli animali devono essere considerati beni mobili, che il loro commercio è disciplinato dal codice civile e che sul venditore grava l’obbligo di garantire che l’animale sia esenti da vizi, riteneva applicabile alla fattispecie l’articolo 1490 c. c.
Da codice civile il compratore doveva denunciare il vizio entro otto giorni dalla scoperta
Secondo la Corte d’Appello nel caso specifico non era stata data alcuna prova che la patologia contratta dall’animale avesse determinato una sua definitiva incapacità funzionale, essendosi la parte appellata limitata a dedurre che la lunga e grave malattia patita, per di più sin dai primi mesi di vita, aveva compromesso la solida struttura fisica dell’animale, rendendolo più delicato e bisognoso di una vita meno provante di quella di cane da guardia per la quale era stato acquistato. Peraltro, il vizio, per essere coperto dalla garanzia, doveva esistere al momento del contratto.
Pertanto, pur ammessa la natura invalidante della malattia contratta dall’animale, si doveva osservare che il vizio era costituito dalla tracheobronchite che il consulente aveva dichiarato essere verosimilmente di natura infettiva e complicata da patogeni secondari tipo Herpes e corona respiratori. In caso di eccezione di decadenza per vizi era il compratore onerato della prova della tempestività della denuncia da effettuarsi entro otto giorni dalla scoperta del vizio. L’acquirente invece non aveva articolato in citazione alcuna prova in tal senso, né aveva insistito per la stessa in sede di precisazione della conclusione, né poteva valere quanto detto al giudice di primo grado circa il fatto che l’allevamento aveva ammesso l’esistenza del vizio, in quanto a quella data erano già decorsi 15 giorni, mentre per il termine per la denunzia era, come detto, di otto.
Si sarebbe pertanto dovuto dimostrare che i primi sintomi della malattia si fossero manifestati nei sette giorni dopo l’acquisto, ma di ciò non vi era alcuna prova. Secondo la Corte d’Appello, pertanto, mancava la prova circa la tempestività della denuncia. Ad analoghe considerazioni, secondo i giudici territoriali, di doveva pervenire anche in applicazione della giurisprudenza secondo la quale il termine per la denuncia dei vizi, nel caso di vendita di animali, decorre da quando i sintomi siano divenuti inequivocabili. Nella specie, in occasione del ricovero dell’animale il 30 dicembre 2016, il veterinario responsabile della struttura sanitaria aveva diagnosticato una broncopolmonite con pleurite pericardite ma la denuncia rappresentata dalla raccomandata a firma dell’avvocato, datata 27 febbraio 2007, era stata inviata alla società ben oltre il termine di otto giorni prescritto dalla legge.
L’acquirente ricorre in Cassazione opponendo il termine di due mesi del Codice del Consumo
Tralasciando le considerazioni circa l’operato del veterinario e soffermandosi sulla questione qui d’interesse, il padrone del cane ha proposto ricorso per Cassazione lamentando violazione e falsa applicazione degli articoli 1496 e 1495 c.c. e dell’articolo 132 del d. lgs. n. 207 del 2005. Secondo il ricorrente la Corte di Appello di Roma, nel sancire la tardività della denuncia, avrebbe errato in quanto, anche qualora fosse coincisa con la nota del 27 febbraio 2007 e non con il ritorno del ricorrente presso l’allevamento a pochi giorni dall’acquisto, la denunzia dal vizio sarebbe comunque intervenuta tempestivamente, dovendosi applicare al caso di specie l’articolo 132 del d. lgs. n. 207 del 2005, ossia il Codice del Consumo, che fissa in due mesi il termine per la denuncia e a mente del quale, qualora i difetti di conformità si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, si presume che questi esistessero già a tale data e il compratore non ha l’onere di provare che il difetto esistesse già prima dell’acquisto.
La Cassazione accoglie la doglianza e chiarisce la normativa in materia
Motivo che la Cassazione reputa fondato Gli Ermellini rammentano un recente pronunciamento della Suprema Corte (n. 22728/18) in una vicenda analoga , in cui i giudici avevano affermato il seguente principio di diritto: “In tema di compravendita di animali, la persona fisica che acquista un animale da compagnia (o d’affezione), per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, va qualificato a tutti gli effetti “consumatore”, così come va qualificato “venditore”, ai sensi del codice del consumo, chi, nell’esercizio del commercio o di altra attività imprenditoriale, venda un animale da compagnia che, a sua volta, in quanto “cosa mobile” in senso giuridico, costituisce “bene di consumo”. Ne consegue che la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta, ai sensi dell’art. 132 c. cons., al termine di decadenza di due mesi dalla data di scoperta del difetto”
Una decisione che la Cassazione aveva così motivato: “l’art. 810 cod. civ. definisce i beni come “le cose che possono formare oggetto di diritti”; e il diritto civile indubbiamente, sulla scia della tradizione romanistica, considera gli animali come mere “cose mobili”, beni giuridici che possono costituire “oggetto” di diritti reali ovvero di rapporti negoziali. Gli animali, perciò, possono costituire oggetto di compravendita (art. 1470 cod. civ.); lo stesso codice civile disciplina specificamente la compravendita di animali nell’apposita fattispecie di cui all’art. 1496 cod. civ. (denominata appunto “Vendita di animali”)”.
Le novità a tutela del consumatore introdotte dal Codice del Consumo
Premesso questo, però, nella sentenza citata si dava atto che “la diffusione degli animali da compagnia in fasce sempre più larghe di popolazione ha dato luogo, in tempi recenti, ad un fenomeno commerciale di non poco rilievo e si sono prospettate, con riferimento al commercio di animali d’affezione (su cui specificamente l’art. 8 della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia), problematiche di tutela giuridica un tempo ignote. La disciplina codicistica della compravendita è stata profondamente incisa dalla normativa sopravvenuta introdotta a tutela del consumatore; a partire dal d.lgs. 2 febbraio 2002 n. 24, che, recependo le direttive europee in materia di beni di consumo, ha inserito nuovi articoli nel codice civile (art. 1519 bis e segg. cod. civ.) finalizzati a garantire al consumatore un maggiore grado di protezione; fino al successivo d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (il cosiddetto codice del consumo), che ha stralciato le nuove disposizioni dal codice civile per collocarle nell’ambito di una autonoma legge organica posta a tutela del consumatore”.
Non solo. Nella pronuncia citata del 2018 la Cassazione aveva anche rilevato come “non è dubbio che l’interpretazione dell’art. 1496 cod. civ. (su cui Cass., Sez. 3, n. 604 del 06/03/1971, relativamente alla gerarchia tra le norme applicabili) non può rimanere cristallizzata al tempo della adozione del codice civile, ma deve tener conto dell’evoluzione del sistema normativo nel suo complesso e, in particolare, della sopravvenuta disciplina posta a tutela del consumatore e del suo riflesso sulle norme codicistiche che regolano la compravendita”.
E la sua “precedenza” per i beni di consumo, tra cui gli animali, rispetto al codice civile
Ora, l’art. 135, comma 2, del codice del consumo stabilisce che, in tema di contratto di vendita, le disposizioni del codice civile si applicano “per quanto non previsto dal presente titolo”; e che l’art. 1469 bis cod. civ., introdotto dall’art. 142 del codice del consumo, stabilisce che le disposizioni del codice civile contenute nel titolo “Dei contratti in generale”, “si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore”.
Esiste, dunque, nell’attuale assetto normativo della disciplina della compravendita, rimarca la Cassazione, una chiara preferenza del legislatore per la normativa del codice del consumo relativa alla vendita ed un conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica (relativa tanto al contratto in generale che alla compravendita): “nel senso che, in tema di vendita di beni di consumo, si applica innanzitutto la disciplina del codice del consumo (artt. 128 e segg.), potendosi applicare la disciplina del codice civile solo per quanto non previsto dal codice del consumo”.
L’art. 128 del codice del consumo, è bene ricordarlo ancora, stabilisce che, ai fini dell’applicazione delle norme contenute nel capo I del titolo III dello stesso codice dal titolo “Della vendita dei beni di consumo“, per “bene di consumo” si intende “qualsiasi bene mobile” e per “venditore” si intende “qualsiasi persona fisica o giuridica pubblica o privata che, nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, utilizza i contratti di cui al comma 1” (contratti di vendita, permuta, somministrazione, appalto etc.).
E ai sensi dell’art. 3 del codice del consumo, per “consumatore” si intende poi “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. In proposito, la giurisprudenza della Suprema Corte, rammentano gli Ermellini, ha spiegato che la qualifica di “consumatore” di cui all’art. 3 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 – rilevante ai fini dell’identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui all’art. 33 del citato d.lgs. – “spetta alle sole persone fisiche allorché concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, dovendosi invece considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso.
Chi acquista un cane per esigenze della vita quotidiana è certo un “consumatore”
Ergo, considerate le ampie nozioni di “consumatore”, di “bene di consumo” e di “venditore” adottate dal codice del consumo, non vi è alcun dubbio, prosegue la Cassazione, che la persona fisica che acquista un animale da compagnia (o d’affezione), per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, “vada qualificata a tutti gli effetti “consumatore”, e che vada qualificato “venditore”, ai sensi del codice del consumo, chi nell’esercizio del commercio o di altra attività imprenditoriale venda un animale da compagnia; quest’ultimo, peraltro, quale “cosa mobile” in senso giuridico, costituisce “bene di consumo“.
In altri termini, considerato che la disciplina del codice del consumo è prevalente – laddove è applicabile – su quella del codice civile e considerato che la compravendita di animali da compagnia non è, di per sé, esclusa dalla disciplina del codice del consumo, “non v’è ragione per negare all’acquirente di un animale da compagnia la maggior tutela riconosciuta da tale ultimo codice quando risultino sussistenti i presupposti per la sua applicabilità” conclude il ragionamento la Suprema Corte.
Tra le maggiori tutele del Codice del Consumo l’estensione dei termini per denunciare i vizi
Peraltro la maggior tutela, nel caso oggetto della controversia in questione (con riferimento alla quaestio iuris al centro della materia del contendere), si coglie, secondo i giudici del Palazzaccio, con riferimento al disposto dell’art. 132 del codice del consumo, che, derogando alla disciplina dell’art. 1495 cod. civ., stabilisce che il consumatore decade dalla garanzia per i vizi della cosa venduta “se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui scoperto il difetto”.
A tutela del consumatore deve applicarsi, dunque, afferma la Cassazione, “non il breve termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta del vizio previsto dall’art.1495 cod. civ., ma il più lungo termine di due mesi dalla scoperta previsto dall’art. 132 del codice del consumo.
Termini che sono di due mesi, come da riaffermato principio di diritto
La “perfetta sovrapponibilità della fattispecie in esame” ha quindi comportato l’automatico accoglimento del primo motivo di ricorso con l’affermazione dei medesimi principi di diritto già stabiliti alla sentenza n.22728 del 2018.
“La compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquisto sia avvenuto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata dal compratore, è regolata dalle norme del codice del consumo, salva l’applicazione delle norme del codice civile per quanto non previsto. Nella compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquirente sia un consumatore, la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta, ai sensi dell’art. 132 del codice del consumo, al termine di decadenza di due mesi dalla data di scoperta del difetto”.
La sentenza di merito è stata pertanto con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, la quale, nel giudizio di rinvio, dovrà esaminare la fattispecie facendo applicazione della complessiva disciplina del codice del consumo “che prevede un più ampio sistema di garanzie e rimedi a tutela del consumatore rispetto a quelle già contenute e regolate nel codice civile a favore del contraente non professionista nella vendita avente ad oggetto beni di consumo”.