Consenso informato, spetta al paziente dimostrare che non avrebbe effettuato l’intervento se correttamente messo al corrente dei rischi
Il “momento” della raccolta del consenso informato del paziente per un’operazione un esame invasivo ancora oggi viene purtroppo trattato troppo spesso con superficialità dai sanitari, limitandosi a raccoglierne le firme su un modulo o a fornire spiegazioni stringate oppure troppo tecniche per la comprensione media delle persone.
Nell’ordinanza 9887/20 depositata il 26 maggio 2020, la Corte di Cassazione ribadisce invece che in ambito medico la manifestazione del consenso del paziente all’intervento chirurgico è espressione del diritto all’autodeterminazione, che trova il suo fondamento in quanto sancito dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, della Carta Fondamentale dei Diritti. La Suprema Corte tuttavia – di qui l’importanza del pronunciamento per quanti lamentino una violazione sul genere – precisa anche che, nel momento in cui il paziente agisca in giudizio ritenendo che questo suo diritto sia stato leso, è suo onere dimostrare che a causa della informativa incompleta o errata del sanitario, avrebbe compiuto una scelta diversa, come rinviare l’operazione, scegliere un altro specialista o non sottoporsi proprio all’intervento.
Un paziente cita in causa un medico per l’insoddisfacente esito di un intervento al polso
La vicenda di cui si sono occupati i giudici del Palazzaccio. La Corte d’Appello di Milano aveva rigettato, come del resto in primo grado, la domanda risarcitoria avanzata da un paziente nei confronti di una clinica e di un medico. Quest’ultimo aveva prospettato all’uomo, affetto da “pseudoartrosi post traumatica dello scafoide con impotenza funzionale del polso destro su base algica”, la soluzione dell’intervento chirurgico di “emicarpectomia prossimale del polso”, che avrebbe garantito un possibile miglioramento dell’articolazione e della sintomatologia dolorosa e la preservazione dal processo degenerativo, ma con il rischio connesso – e accettato dal paziente- della perdita del 30% di funzionalità dell’articolazione del polso.
Purtroppo, però, dopo l’intervento chirurgico, pur correttamente eseguito e senza errori tecnici, come rilevato dai giudici, era derivata, accanto ad una riduzione della algia, anche una perdita complessiva della funzionalità del polso di circa il 68-70%.
In primo e secondo grado la domanda risarcitoria viene rigettata
La Corte territoriale aveva rigettato le doglianze difensive del danneggiato volte a contestare l’inesattezza dell’informazione sui rischi e l’invalido consenso informato prestato quale presupposto della richiesta risarcitoria, poiché prive di fondamento.
Il Ctu aveva infatti accertato che il paziente, prima dell’intervento, soffriva di una riduzione funzionale di circa 33%, pari a un terzo (valutato come 12-13% grado di invalidità permanente), e che dopo l’intervento chirurgico la riduzione di funzionalità era pari a circa il 67-68%, cioè di quasi a 2/3 (valutato come 17-18% grado di invalidità permanente), ragion per cui l’incremento corrispondeva a poco più della riduzione di funzionalità prospettata dal medico in sede di acquisizione del consenso informato (il 34% invece del 30%), non potendo convenirsi con l’assunto del danneggiato secondo cui il sanitario avrebbe fatto riferimento alla riduzione massima in assoluto e non alla riduzione ulteriore – rispetto al preesistente stato invalidante -: si sarebbe pervenuti al paradosso che il rischio, ove verificatosi, avrebbe prodotto addirittura un miglioramento dello stato pregresso.
Il paziente ricorre per cassazione
Contro questa sentenza, tuttavia, il danneggiato ha proposto anche ricorso per cassazione, sollevando svariati motivi di doglianza.
Egli contestava alla Corte di merito di non aver preso in considerazione la critica sulla mancanza di esaustività del consenso informato, asseriva che il medico, nel prospettare un esito troppo ottimistico dell’intervento, avrebbe violato il suo diritto ad autodeterminarsi liberamente, sottolineava che come la richiesta risarcitoria avanzata fosse incentrata non sull’intervento ma sulla violazione del diritto all’autodeterminazione e, infine, lamentava l’omessa valutazione della circostanza che il sanitario chiamato in causa gli avesse prospettato come esito dell’intervento un miglioramento della funzionalità dell’articolazione del polso, affermazione incompatibile con il risultato dell’operazione che aveva invece ulteriormente aggravato la situazione.
I principi del consenso informato
La Suprema Corte ricorda al riguardo i principi già più volte affermati in merito al consenso informato. E cioè che, in tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2 e 13 Cost., e art. 32 Cost., comma 2.
La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danno: un danno alla salute, che sussiste quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute.
Pertanto, nell’ipotesi di omissione o inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute ma che abbia impedito l’accesso ad altri, più accurati accertamenti, la lesione del diritto all’autodeterminazione sarà risarcibile ove siano derivate conseguenze dannose di natura non patrimoniali, quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi, salva la possibilità della prova contraria: le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit.
Al riguardo, la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” derivante esclusivamente dall’omessa informazione.
La Cassazione respinge il ricorso
Chiarito il quadro generale, la Suprema corte affronta il caso di specie e rigetta il ricorso. Anche per la Cassazione, il motivo contestato dal ricorrente circa il miglioramento promesso dal medico è infondato, in quanto la riduzione della mobilità del 30% prospettata dal sanitario come rischio alla fine ha coinciso con il difetto che affliggeva già il paziente.
Ma qui preme soprattutto dare conto delle argomentazioni relative al motivo di ricorso con cui il paziente contesta “l’eccessivo ottimismo” del medico relativamente all’esito dell’intervento, definito inammissibile perché carente di specificità.
Il paziente deve provare che, se correttamente informato, avrebbe scelto diversamente
Come si è visto, tra gli elementi costitutivi della fattispecie del diritto al risarcimento del danno per lesione del diritto alla autodeterminazione cagionata dall’inesatta od incompleta informazione del medico volta ad acquisire la – valida e consapevole – manifestazione di consenso del paziente, non può prescindersi dalla prova che la condotta di quest’ultimo, se correttamente informato, sarebbe stata certamente diversa, ossia che avrebbe certamente rifiutato di sottoporsi all’intervento chirurgico.
La allegazione dei fatti dimostrativi dell’opzione “a monte” che il paziente avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio di riparto ex art. 2697 c.c., comma 1, compete ai danneggiati.
Gli elementi costitutivi della richiesta risarcitoria per lesione del diritto all’autodeterminazione cagionata dall’inesatta o incompleta informazione del medico, infatti, ribadiscono gli Ermellini, non possono prescindere dalla prova che il paziente, se correttamente informato, avrebbe compiuto una scelta diversa, magari rifiutandosi di sottoporsi all’intervento. In altri termini, il paziente non può sostenere che, se fosse stato informato adeguatamente, non si sarebbe sottoposto all’intervento, lo avrebbe differito o si sarebbe rivolto a un altro medico “senza portare fatti dimostrativi a monte che il paziente avrebbe esercitato“.
“L’omessa informazione assume di per sé carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la rilevanza causale dell’inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa “consenso/dissenso” che qualifica detta omissione, laddove, in caso di presunto consenso, l’inadempimento, pur esistente, risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato infausto dell’intervento, in quanto comunque voluto dal paziente; diversamente, in caso di presunto dissenso, assumendo invece efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l’intervento terapeutico non sarebbe stato eseguito – e l’esito infausto non si sarebbe verificato – non essendo stato voluto dal paziente” spiegano gli Ermellini.
Nel caso di specie non è stata fornita alcuna prova
Ebbene, nel caso in esame, i giudici della Terza Sezione Civile hanno osservato che, indipendentemente dagli eventuali ulteriori profili di incompletezza della informazione (non sarebbe stato accertato il grado di invalidità preesistente e quindi il paziente non poteva valutare la “differenza” peggiorativa in caso di verificazione del rischio prospettato; non era stato specificato che l’intervento “non era risolutivo ma era demolitivo”) contenuti nel motivo di ricorso per cassazione, il ricorrente non aveva neppure indicato se e quali prove fossero state richieste di acquisire o raccolte nei precedenti gradi di giudizio dirette ad accertare – mediante giudizio controfattuale “ora per allora” – che egli, qualora avesse inteso che il rischio di insuccesso avrebbe potuto produrre un’ulteriore limitazione di mobilità, pur riducendo la sintomatologia algica ed impedendo l’evoluzione del fenomeno degenerativo osteoarticolare, avrebbe sicuramente rifiutato di sottoporsi all’intervento di emicarpectomia prossimale.
Per inciso, respinti anche gli altri motivi. Per gli Ermellini la Corte di merito ha correttamente individuato l’oggetto della richiesta risarcitoria, ha negato il contenuto erroneo e ingannevole dell’informazione fornita dal medico e ha ritenuto non indebolito il consenso prestato dal paziente.
Fatto questo, il giudice dell’impugnazione non era tenuto a eseguire ulteriori indagini in ordine ad altri pregiudizi subiti dal paziente. In ogni caso, la Corte ha ritenuto che l’indicazione nell’informativa di “un rischio di insuccesso quantificato percentualmente in termini di ulteriore invalidità, era idonea a consentire al paziente un’adeguata ponderazione nella scelta“.
Insomma, la censura proposta dal ricorrente risultava totalmente carente del connotato della specificità, per queste ragioni il ricorso è stato dichiarato inammissibile e la parte soccombente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.